martedì 29 novembre 2011

Martedì in Arte

Oggi, 29 Novembre, e il 27 Dicembre sono le ultime due date per il 2011 dell'iniziativa ministeriale "Martedì in Arte".
Dalle 19.00 alle 23.00 saranno aperte le porte dei maggiori musei statali della penisola alcuni dei quali accoglieranno iniziative culturali e musicali, per impiegare profiquamente queste gelide sarate infrasettimanali.
Ingresso gratuito.
Beh, che dire: approfittatene!

Programma


JaneLane

Giornata di studi su Lionello Venturi - Perugia, 1 Dicembre 2011

Cinquant’anni fa veniva a mancare uno dei Maestri della storia della critica d’arte novecentesca, il
grande Lionello Venturi. Un intellettuale che ha spaziato nei periodi storico artistici più svariati; che
ha insegnato l’importanza di affrontare l’arte contemporanea con la stessa serietà con cui si affronta
quella antica; che ha mostrato quanto lo storico dell’arte non può rimaner fuori dal proprio tempo e
dai conflitti politici e sociali che lo agitano.
Questo e tanto altro ancora, ha insegnato Venturi.
L’Università per Stranieri di Perugia ha organizzato in suo onore una giornata di studi giovedì 1
dicembre 2011, dalle 9 e mezza: un’ occasione ottima per riscoprire Venturi, insieme a nomi illustri
come quelli di Maurizio Calvesi e Gianni Carlo Sciolla.

Programma

Link al sito di riferimento



di Mario Cobuzzi

lunedì 28 novembre 2011

L’immagine insepolta - Warburg secondo Didi-Huberman

Scrivere una recensione di questo libro di Georges Didi-Huberman è per me davvero difficile; forse perché, quando ci rendiamo conto che una determinata cosa ha per noi un’ importanza più o meno grande, viene naturale una sorta di timore reverenziale ad affrontarla criticamente: la possibilità di non averla capita a fondo, di fraintenderla, di tradirla, può diventare ipotesi inibitrice.
Se poi “l’oggetto d’amore” è un qualcosa di complesso, difficile, straordinariamente ricco e articolato (il volume in questione è tutte queste cose più molto altro) ecco che l’impresa di un’ analisi critica che possa dirsi “completa” sembra impossibile: d’altronde, uno degli insegnamenti più importanti di Aby Warburg tramandatoci da Didi- Huberman, ci dice che l’idea di poter affrontare l’oggetto in tutte le sue componenti, in tutti i suoi possibili livelli di significazione, sbrigliandone ogni groviglio, risolvendo definitivamente ogni rebus di cui è portatore, è impresa impossibile da attuarsi praticamente e progetto metodologico sbagliato.
Per cui questo articolo, più che una recensione, vuole essere un semplice “consiglio di lettura”.

Aby Warburg


Didi- Huberman rompe e crea legami.
Rompe in maniera risoluta quei legami che la storia tradizionale dell’Iconologia aveva instauratocon Erwin Panofsky e la sua eredità; al contrario, proprio il successo del metodo iconologicocanonico formulato da quest’ultimo risulta essere l’artefice massimo della condanna all’oblio deiconcetti fondamentali di Warburg e della normalizzazione rassicurante della sua opera.
Stesso dicasi per il neo- kantiano Ernst Cassirer, uomo d’ordine e della ragione, lontanissimo dall’Uomo del Chiaroscuro Warburg che credeva nella resistenza dei demoni e del sintomo psischico in quanto elementi costitutivi della cultura occidentale.
I nuovi legami. Sigmund Freud e la psicoanalisi, innanzitutto.
Andando in direzione opposta rispetto a quanto sostenuto da Ernst Gombrich ( l’altro grande bersaglio di queste pagine) Didi- Huberman arriva addirittura a spiegare Warburg attraverso Freud, a trovare nelle teorie del viennese un chiarimento multidisciplanare dei punti più oscuri e sottovalutati della speculazione warburghiana: lo studioso amburghese, d’altronde, non si autodefiniva “psicostorico”? Non parlava della cultura occidentale come di un organismo essenzialmente schizofrenico? E le opere di entrambi non trattano del rimosso e del suo inarrestabile tornare alla luce come sintomo rivelatore?
Così, attraverso la psicoanalisi, al fondamentale concetto di Nachleben (Sopravvivenza) viene restituita tutta la sua forza: la forza di una nozione estrema che fa venir meno tutte le certezze delle storie positiviste e idealiste, e che mette in fuori gioco qualsiasi certezza cronologica.
E se Gombrich, nella sua biografia intellettuale[1], aveva deciso di stendere un velo sull’esperienza di Warburg internato in manicomio alle prese con la follia, Didi- Huberman quel velo lo toglie risolutamente, entrando deciso nella clinica di Kreuzlingen.
E lo fa per due motivi. Il primo: c’è un altro filo da collegare, quello che unisce lo studioso folle alle teorie di Ludwig Binswanger, di cui era paziente. Il secondo, basilare: l’esperienza tragica della follia è esperienza fondativa: è nella contorsione che Warburg costruisce il suo sapere, <<risalendo il percorso dalla prova all’esperienza, e da quest’ultima alla conoscenza>>.
La lezione che se ne ricava è fondamentale quanto tragica, addirittura pericolosa: non ha validità una storia dell’arte che non tenga conto dei sintomi, delle polarità e degli intrichi inestricabili, della carica psicologica e patologica di cui le immagini sono la più potente cassa di risonanza. Quella di una “storia dell’arte come disciplina umanistica” di panofskyana memoria è insomma solo una rassicurante illusione; lo storico dell’arte deve essere pronto a fare i conti coi pericoli insiti nei sui oggetti di studio: non tener conto di essi e della loro importanza, accantonarli per mettersi al sicuro, equivale a un tradimento e a una incomprensione.
E’ il ruolo di sismografo che Warburg assume: un sismosgrafo sensibile ai ritorni inaspettati e perturbanti che si presentano come sintomi capaci di far precipitare il tempo storico cronologico nel tempo psichico delle ritornanze; un sismografo sensibile che nel ricevere e trasmettere, non può non subire gli effetti di quanto ricevuto. E’ un sapere, quello di Warburg, costruito per incorporazione.
Scrive Didi- Huberman, in un altro splendido libro che riprende alcuni temi portanti dell’esperienza warburghiana[2]: <<Non si produce un sapere sulle immagini senza manipolarle. Non si manipolano le immagini senza essere esposti- nel bene e nel male- a subire e a trasmettere il loro potere epidemico>>.

Insomma, quello di Didi- Huberman è un discorso che riguarda direttamente il compito della disciplina storia dell’arte e lo statuto dei suoi oggetti di studio, le immagini- il tutto detto attraverso il riferimento alla lezione (chiarita e per molti versi reinterpretata) di Warburg.

Per concludere ritorno a quanto detto all’inizio. E cioè che questo libro è molto più ricco e
complesso di quanto si possa desumere dalla lettura di questo articolo- basti pensare ai legami instaurati dall’autore che qui ho omesso, alcuni più scontati (Nietzche, Darwin, i Vischer e le teorie dell’Einfulung- molti dei quali rivisitati e riconsiderati) altri più innovativi (Baudelaire e Benjamin).
Così ricco e complesso, questo volume, da non potersi leggere, a mio avviso, senza avere una buona conoscenza della bibliografia su Aby Warburg accumulatasi nel corso degli ultimi decenni dopo l’iniziale silenzio sulla sua figura e sulla sua opera.
Tuttavia farei un torto a Didi-Huberman se, oltre alla difficoltà e all’impegno che la lettura richiede, non sottolineassi un fatto altrettanto sicuro: e cioè che questo è anche un libro dalla scrittura affascinante, ammaliante, in alcuni tratti quasi poetica. Basterà, per essere d’accordo con me, leggere i capitoli dedicati alla Ninfa come Leitfossil, o quello (lunghissimo e decisivo) dedicato all’atlante Mnemosyne in quanto montaggio, o ancora l’Epilogo del cercatore di perle.



G.Didi- Huberman, L’immagine insepolta-Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia
dell’arte,
Bollati Boringhieri 2006,
551 pagine,
48 euro
.
 

[1] E.H. Gombrich, Aby Warburg - una biografia intellettuale, Feltrinelli 1983 (attualmente fuori catalogo)
[2] G. Didi-Huberman, Ninfa moderna, il Saggiatore 2004




 
di Mario Cobuzzi

domenica 20 novembre 2011

Fiedler verso de Kooning ( e altro ancora).

Konrad Fiedler visto da A.von Hildebrand

Il fatto che le teorie della pura visibilità hanno avuto un ruolo determinante nella cultura artistica
primo novecentesca non lo scopriamo certo oggi. <<Non ho alcun dubbio che, per i due decenni
decisivi prima della prima guerra mondiale, fosse il libro d’arte più letto e influente>>, scrive
Wittkower[1] riferendosi a Il problema della forma nell’arte figurativa, di Adolf von Hildebrandt,
datato 1893.
Questo discordo vale, ovviamente, anche per Konrad Fiedler, l’esponente di spicco della pura
visibilità
, i cui testi hanno influenzato, oltre alla critica d’arte formalista dei decenni successivi
alcuni tra gli artisti più importanti delle avanguardie storiche.
Filiberto Menna, in un suo bellissimo libro -da qualche anno tristemente “fuori catalogo”- dedicato
a Mondrian[2], mette bene in chiaro l’importanza dello studioso tedesco per l’artista olandese pioniere
dell’ Astrattismo.
Andrea Pinotti e Fabrizio Scrivano, dal canto loro, nell’introduzione ai saggi fiedleriani raccolti
sotto il titolo Scritti sull’arte figurativa[3], rilevano come <<la provocatorietà stessa della posizione
di Fiedler richiama un’idea dell’arte che percorrerà con numerose varianti e sempre in profondità
le pratiche artistiche contemporanee, praticamente fino alle più recenti e non ancora cessate
correnti>>: è alla performance che i due studiosi pensano. E aggiungono: <<L’oggetto del giudizio
[in Fiedler] non è il prodotto ma il processo di produzione, non l’opera ma l’azione>>.
Dopo queste parole mi sembra inutile aggiungere che per ogni studioso d’arte contemporanea la
lettura di Fiedler risulta indispensabile.
Le avanguardie storiche e Mondrian, la pratica della performance: “l’altro ancora…” del titolo di
questo scritto, ormai da tempo ben riconosciuto e analizzato dalla critica.
Come avrete capito da quel “verso de Kooning”, è all’artista olandese di nascita e americano
d’adozione che voglio arrivare, uno dei massimi protagonisti- lo scrivo anche se è inutile scriverlo-
dell’ Espressionismo Astratto e dell’arte del secondo novecento.

Come i tre studiosi sopra citati, anch’io farò riferimento al testo d’esordio di Fiedler, il bellissimo
Sulla valutazione delle opere d’arte figurativa del 1876- la cui importanza va oltre l’argomento qui
trattato.
A lui la parola (i corsivi sono miei).
“L’attività spirituale artistica non mira ad alcun risultato, ma è essa stessa un risultato. Si esaurisce in ogni singolo istante, per ricominciare di nuovo nell’istante successivo. […] La chiarezza della
coscienza cui il singolo si innalza, non gli assicura mai un possesso duraturo, di cui egli possa
godere in pace […]”.
Abbiamo qui due conclusioni essenziali:
1- è il processo creativo che conta, l’attività dell’artista la cosa davvero importante. L’opera finita    sarà un momento ulteriore e tuttavia non indispensabile: il fine dell’agire artistico è
l’agire artistico in quanto tale (come già rilevato da Pinotti e Scrivano).
2- Lo stato di grazia dell’artista è il momento in cui agisce artisticamente; ma è un momento
transeunte, non infinito, da riconquistare di volta in volta “nell’attimo successivo”. Una
coscienza della fuggevolezza dell’agire autenticamente artistico che, come vedremo, de
Kooning vivrà in maniera tragica.

E ancora: “L’opera d’arte non è la somma dell’attività artistica dell’individuo, ma un’espressione
frammentaria di qualcosa che non può essere espresso in tutta la sua complessità
”, periodo a mio
avviso stupendo, che trasuda amore e rispetto per la complessità dell’Arte (un qualcosa che rimane
indefinibile e inafferrabile da qualsivoglia analisi), e che nello stesso tempo porta un altro colpo a
favore della causa della svalutazione dell’oggetto “opera d’arte”.
E in ultimo: “L’attività interiore che l’artista sviluppa spinto dalla sua natura si manifesta soltanto
sporadicamente
nell’atto artistico esterno, che non rappresenta il lavoro artistico in tutto il suo
svolgimento
, ma soltanto uno stadio intermedio”. L’atto artistico propriamente detto è quindi
sporadico, e soprattutto, non costituisce il fatto artistico puro, completo, dispiegato in tutte le
sue diramazioni e possibilità: il gesto è solo un’espressione frammentaria di un qualcosa di
essenzialmente inattuabile e quindi irraggiungibile.

W. de Kooning, Woman I, 1950-52


In de Kooning ritroviamo tutti questi motivi, rivissuti, come dicevo, in una maniera più intensa e
drammatica- e non potrebbe essere altrimenti, se pensiamo alla sua opera e alla sua biografia.

E mi permetto, a questo punto, di far entrare in scena un altro grande, Harold Rosenberg, critico
a lui molto vicino, che scrive in “de Kooning- La pittura è un modo di vivere”[4], del ‘63: <<E’
ormai raro trovare artisti che operano fidandosi completamente delle intuizioni scaturite durante
il processo creativo. Tra questi avventurieri del caos spicca Willem de Kooning>>. Il processo
creativo, tanto caro a Fiedler, è evidentemente centrale nell’artista americano; un processo che nelle
sue opere si arricchisce di una dimensione ulteriore, quella del caos, in cui l’artista si trova ad agire.
Continua Rosenberg: <<Per un attimo, il pittore e la pittura sono una cosa sola in azione sulla tela.
Ma solo per un attimo. Poi, nell’inevitabile dispersione, l’arte e l’artista non sono più niente. E
nessuno sforzo sarà in grado di ricreare l’unione. Per anni de Kooning ha parlato dell’artista come di
un disperato.>>
Ecco il punto, allora: il processo creativo (quello che nel lessico rosenberghiano diventa azione) è
un qualcosa di transeunte, di sporadico, di non infinito; qualcosa che, come sostenne Fiedler quasi
un secolo prima, non assicura all’artista un possesso duraturo.
Tutto ciò si carica di phatos e dramma, nelle mani di de Kooning: l’artista è un disperato la
cui disperazione non deriva dal problema della conclusione dell’opera, quanto dal fatto che
quell’unione “metafisica” con l’Arte è destinato alla fatale, irrimediabile rottura.
Rosenberg è molto chiaro: <<Ed ovviamente egli non cerca di completare l’opera per vederla
finita, ma si ferma alla frustrante ricerca che ha avviato>>. Appunto: è il processo creativo,
l’azione, a costituire l’elemento determinante, non il portare a termine l’opera.
Ecco cosa dichiarava l’artista pochi anni prima, nel ’60, in un’intervista radiofonica: <<Per me
è sempre stato molto difficile decidere quando un quadro era terminato, lo riconosco. Ma ora va
meglio. Smetto di lavorarci, semplicemente>>.[5]

Cosa si può concludere da tutto questo discorso?
Innanzitutto una cosa che reputo scontata: e cioè che, al di là del fatto che de Kooning possa aver
letto o meno qualcosa di Fiedler, la sua poetica e il suo agire gli appartengono interamente: troppo
drammaticamente soggettiva mi sembra la sua esperienza per farla dipendere da teorie critiche e
speculazioni estetiche.
Senza contare le differenze tra i due uomini protagonisti di questo scritto: se per Fiedler “l’atto
artistico esterno” rimane un fenomeno intermedio tra l’artista e l’Arte, in de Kooning diventa
fenomeno totale che permette l’osmosi completa con essa, osmosi la cui essenza transeunte è causa
della beatitudine e della dannazione a cui il disperato è condannato.
Se ci mettiamo però nell’ottica di una valutazione dell’opera del pensatore della pura visibilità ecco
che quanto detto fin’ora appare più significativo, perché rende più viva la percezione della forza
innovativa del suo pensiero nel suo estendersi irrimediabile (in un modo forse nemmeno voluto e
previsto) su alcuni dei fatti più significativi dell’arte contemporanea.
Così, nello scrivere queste righe, ripensando a uno dei cardini del pensiero di Fiedler- l’esclusione
dell’estetica dalla sfera dell’Arte- mi ritorna in mente il noto, folgorante motto di Barnett Newman:
“L’estetica è per l’arte ciò che l’ornitologia è per gli uccelli”. Chissà che non ci sia dell’ “altro
ancora” da portare alla luce.


[1] La scultura raccontata da Rudolf Wittkower, Einaudi 1985
[2] Filiberto Menna, Mondrian, Editori Riuniti 1999
[3] Konrad Fiedler, Scritti sull'arte figurativa, Aesthetica Edizioni 2006 (edizione a cui farò riderimento)
[4] in Harold Rosenberg, Action Painting - scritti sulla pittura d'azione, Maschietto Editore 2006
[5]
Willem de Kooning, Appunti sull'arte, Abscondida 2003


di Mario Cobuzzi

venerdì 18 novembre 2011

Musei in musica - Roma, 19 Novembre 2011

Domani, 19 Novembre, torna per la terza volta l'iniziativa capitolina "Musei in Musica".
Dalle ore 20.00 all'1.00 (ultimo ingresso h 24.00) sarà possibile assistere gratuitamente a diversi eventi musicali in altrettanti siti culturali romani.
Il programma lo si trova al seguente link:
http://issuu.com/museiincomuneroma/docs/musei_in_musica_2011_-_roma_capitale/5

JaneLane

mercoledì 16 novembre 2011

Beni culturali?... che vadano al diavolo!

Pompei, Domus dei Gladiatori



Giovedì 16 novembre 2011.

Un’altra brutta giornata per il nostro patrimonio culturale: il nuovo capitolo della brutta storia che va avanti da più di vent’anni.

Che siano di destra o di sinistra, politici o tecnici, i governi che si succedono alla guida del nostro malandato Paese hanno in comune il disinteresse per il patrimonio artistico, storico, archeologico, paesaggistico, che fa dell’Italia il Paese che è.

Beni culturali?... che vadano al diavolo!”: questo, per l’appunto, il coro unanime che giunge, compatto, dai palazzi del potere.

Lorenzo Ornaghi è il nuovo ministro per i Beni e le attività culturali.

Chi è costui? Il Rettore della Cattolica, professore di scienze politiche: è diventato titolare di quella poltrona che, si diceva in un primo tempo, avrebbe dovuto occupare Salvatore Settis.

Già, io sono uno dei fessi che ci aveva creduto!
Ipotesi straordinaria: Settis ministro! Egli è non solo uno dei migliori storici dell’arte che il nostro Paese ha prodotto negli ultimi decenni, ma è anche un intellettuale che alla difesa del patrimonio culturale ha dato tanto: sia nelle vesti di saggista (il suo Italia S.p.A., edito da Einaudi, è libro che ogni giovane studioso d’arte –per non dire ogni cittadino italiano- dovrebbe avere nella propria biblioteca) che di uomo delle istituzioni (il braccio di ferro con Bondi e le successive dimissioni dalla presidenza del Consiglio Superiore dei Beni Culturali sono il fatto più noto).

Certo, il realismo ci avrebbe indotto a pensare che non avremmo avuto miracoli, dato che i miracoli non li ha fatti nemmeno Gesù Cristo. D’altronde, se questo governo tecnico nasce primariamente per risolvere una situazione economica travagliata quanto quella del patrimonio culturale, è facile aspettarsi che le esigenze impellenti del nostro patrimonio sarebbero passate inevitabilmente in secondo o terzo piano (proprio in linea con quello che è successo negli ultimi vent’anni e passa).

Ma avremmo avuto almeno una certezza: una persona competente e moralmente diritta come Ministro dei beni Culturali. 


Sembra poco, e invece non lo è; sarebbe stata, la nomina di Settis, una boccata d’ossigeno, la speranza che il dramma contemporaneo del nostro patrimonio culturale sarebbe stato almeno un po’ più in vista di quanto lo è stato nel passato, e i tentativi di risolverlo seri e concreti.

Ma le decisioni di Mario Monti sono andate in altro senso.

Sia ben chiaro: nessuno vuole mettere in dubbio l’onestà e l’intelligenza dell’uomo Ornaghi e la sua attività.

Quello che qui si contesta è la sua (in)competenza in materia.

Si contesta la scelta di Monti, che realizza un governo di tecnici nominando ministro un incompetente del settore (se anche Settis avesse rinunciato per motivi indipendenti dalla volontà di Monti, si sarebbero potute fare ben altre scelte): come mettere al ministero dell’economia uno storico dell’arte!

E si contesta, infine, quella che è l’idea dominante nel Paese, a partire dalla sua classe dirigente, idea che la scellerata scelta montiana mette per l’ennesima volta in luce: e cioè che i Beni Culturali sono l’ultima ruota del carro, le risorse da lasciare lì, in un angolo, a decadere lentamente in silenzio.

Tutto questo non si può più tollerare!



di Mario Cobuzzi

lunedì 14 novembre 2011

Hans Hartung. Opere 1971-1976 - Limen otto9cinque, Roma

20 ottobre 2011 - 9 dicembre 2011

Curatore: Massimo Riposati



“Dal 1970 ho una sensazione di rinnovamento. Come se una forza nuova, una nuova giovinezza mi siano state concesse.”
Con questa frase, che campeggia sul pannello introduttivo, si apre la piccola e godibilissima rassegna che la galleria Limen otto9cinque dedica ad Hans Hartung.

L'artista tedesco, naturalizzato francese dopo aver combattuto nella Legione straniera durante la seconda guerra mondiale (rimettendoci anche una gamba), è tra i precursori, non che tra i più celebri esponenti, dell'informale europeo. Sin dal principio rifiutò la figurazione, ma non si fece influenzare dalle tendenze geometriche che dagli anni '20 e per diversi decenni fiorirono in tutta Europa, sviluppando invece le componenti astratte e liriche che ritroverà in Kandinskij, interpretandole secondo una poetica del gesto, rapido e sicuro, che trascrive in impronta pittorica uno stralcio di realtà. Come egli stesso affermerà: "Dipingere ha dunque sempre presupposto per me l’esistenza della realtà: questa realtà che è resistenza, slancio, ritmo, spinta, ma che non capisco totalmente che quando la afferro, la circoscrivo, la immobilizzo per un momento che vorrei veder durare per sempre".
L'esposizione si sofferma su un gruppo di opere dei primi anni '70, in cui segni netti e cromie brillanti e smaltate creano una rete assolutamente equilibrata ed armonica di forze tese, contrastanti, tanto energiche e vive che ci si aspetta quasi di vederle continuare a compiersi sotto i proprio occhi, come per un moto spontaneo.

A tutto ciò aggiungo che:
- è la prima volta che Roma ospita una consistente fetta dell'opera di Hartung.
- la galleria si trova in via Tiburtina 141; dieci minuti da Termini, tre passi dall'università di Roma1. Comoda e ben collegata.
- l'ingresso (approfittatene) è gratuito.

Non so, mi sembra non ci siamo troppi motivi per perdersi questa ghiotta opportunità che io consiglio vivamente.


JaneLane

Ultime tracce di un viaggio. L’America Latina nelle mani e negli occhi di Sepùlveda e Mordzinski.

Una Moleskine e una Leica, un quadernetto nero e una macchina fotografica: semplici strumenti.
Comuni, ordinari. A volte, però, possono trasformarsi in poetiche armi, come quando finiscono
nelle mani di due personaggi tutt’altro che ordinari come lo scrittore cileno Luis Sepùlveda e
il fotografo argentino Daniel Mordzinski. Sono le mani che danno vita a Ultime notizie dal Sud
[Guanda, 2011], successione di racconti che testimonia le varie tappe di un viaggio in Patagonia,
estremo sud dell’America Latina.

Sfilano in successione volti di “folletti”, vecchi treni destinati a una fine inesorabile, liutai in
cammino su strade deserte, la solitudine di una donna anziana circondata da pochi oggetti
familiari e un insolito giardino fiorito. Uno scrittore mastica un sigaro spento, fieri meccanici
resistono alla privatizzazione che incombe. Tra queste immagini – scritte, fotografate – si
muovono i due autori, armi alla mano, portando una nuova, sofferta testimonianza di un mondo
lontano, sì, ma non troppo per scorgervi alcuni meccanismi d’attacco del Dio Denaro (“poderoso
caballero”, lo definì Francisco de Quevedo), sempre meno disposto a compromessi di sorta.


I temi trattati appartengono ormai strettamente al repertorio di Sepùlveda, e chi ha avuto
modo di avvicinarsi alla sua letteratura sa riconoscerli e apprezzare l’inalterata lucidità dello
scrittore cileno. Questa volta, però, la particolarità di “Ultime notizie dal Sud” sta nell’associare
la straordinaria narratività e l’impegno dell’autore con le semplici - ma tutt’altro che banali
– fotografie di Mordzinski. Una successione di immagini in b/n che la sua Leica cattura lungo
il cammino (“on the road”, si direbbe con termine forse più incisivo, richiamando altre storie
americane, qualche migliaio di chilometri più a nord della Patagonia), puntellando i vari capitoli/
racconti con mappe geografiche, volti di gauchos e vecchie pompe di benzina in una sterminata
pianura spazzata dal vento.

Al termine del viaggio - perché tale in questi casi non è solo quello dei due autori, ma anche quello
meno accidentato del lettore – resta un sapore strano, che sa di libertà e di indignazione per la
triste sorte che i poteri economici e politici riservano a quell’angolo di mondo fuori dai riflettori.
Forse il senso di questo spaesamento, tra tristezza e consapevolezza, lo svela lo stesso Sepùlveda
fra le pagine del libro: “Quando leggiamo o scriviamo, mettiamo in atto una fuga, la più pura e
legittima delle evasioni, ne usciamo più forti, rinnovati, forse migliori. In fondo, malgrado tante
teorie letterarie, noi scrittori siamo come quei personaggi del cinema muto che nascondevano
una lima in una torta in modo che il detenuto potesse segare le sbarre della cella. Offriamo fughe
temporanee.” E noi possiamo star certi che la fuga di cui parla l’autore è quanto di più distante da
un’evasione disimpegnata e leggera.

di Marco Pacella

domenica 13 novembre 2011

Blu!

In tempo di crisi e specialmente in un momento in cui essere italiani non è che sia propriamente un vanto in giro per il mondo, non c'è niente di meglio che dare uno sguardo ad un artista di cui possiamo, anzi dobbiamo andare fieri. Stiamo parlando di Blu, ragazzo partito da Bologna che incarna l'eccellenza culturale italiana in fatto di postgraffitismo e new media.
In attività dalla fine degli anni '90 con disegni e semplice attività da writer, comincia invece a scoprire uno stile proprio grazie alla collaborazione (e all'amicizia) con l'artista Ericailcane, riuscendo finalmente a trovare una via per incanalare l'enorme talento a disposizione. Dopo i primi lavori italiani (specialmente a Bologna, celebre quello di via Avesella) cominciano le sue peregrinazioni in giro per il mondo, che lo vedono protagonista in tutto il Sud America-celebri i suoi “Hombre banano” in Nicaragua e il particolarissimo “Cristo di Corcovado” a Rio de Janeiro. Molto attivo anche negli States, in Europa e in Palestina collabora all'interno di festival al fianco di artisti del calibro di Banksy, Swoon, Mark Jenkins e Os Gemeos, solo per citarne alcuni. Ripercorrerne l'intera carriera è assai complicato dato l'incredibile eclettismo dei suoi lavori che spaziano dagli sketchbook ai dipinti murali di dimensioni “colossali”. Il suo stile, meravigliosamente espresso dai suoi lavori non è facilmente definibile, perchè mentre da una parte tende la mano a quello dei graffitisti, intervenendo invasivamente e incisivamente sul paesaggio urbano, dall'altra si spinge verso una serie di espressioni artistiche, culturali, sociali e politiche che ampliano a dismisura il raggio d'interesse. Con l'impiego di rulli e la copertura di grandi superfici potrebbe quasi nascere il paragone con i grandi affrescatori rinascimentali.
Per meglio penetrare all'interno della sua personalissima impronta citerò il libro di Claudia Galal nel quale “Blu racconta che il punto di partenza del suo lavoro è la macchia di colore, che poi stende su tutta la superficie lasciandosi guidare dal luogo e dall'edificio per creare la forma definitiva del disegno. Si tratta di un'estetica e di tecniche che si avvicinano al muralismo, in particolare a quello messicano e sudamericano, con il quale condivide anche lo spirito critico sulla società”.
Il punto fondamentale da tenere sempre in considerazione è la profonda relazione che si instaura tra i personaggi animali e antropomorfi che spesso popolano le sue realizzazioni e il contesto in cui vengono inseriti. Non si trovano mai per caso sulla facciata di un palazzo piuttosto che su una parete pubblica, sono sempre lì per un motivo ben preciso, probabilmente impossibile da cogliere per un qualunque passante, ma senz'altro captabile da un osservatore meno distratto. E non ci riferiamo esclusivamente al campo artistico, perchè nei lavori di Blu, nella sua arte, si riversano la sua ideologia, la sua riflessione critica, la sua denuncia della società. Sono i vessilli del suo attivismo politico e sociale.

Trattandosi di un artista a 360° la sua grande attenzione verso il campo dei new media emerge  anche solo dando un semplice sguardo al suo sito. Convinto sostenitore della condivisione dei saperi, ha trovato in internet il medium ideale per trasmettere le sue idee, tanto che nella rete si possono apprezzare le sue sperimentazioni di animazione a cui si dedica sin dal biennio 2001/2002 e che toccano l'apice con il corto “Muto; an ambiguous animation painted on public walls”, che riguarda un lavoro cominciato a Baden e concluso a Buenos Aires e “Big Bang Big Boom; a short unscientific story about evolution and his consequences”.
Particolarmente interessanti sono anche i behind the scenes delle sue creazioni, aggiornati sotto la sezione “blog” del suo sito, che svelano le varie fasi di realizzazione delle opere esaltando, così,   l'incomparabile genialità dell'artista italiano.

www.blublu.org


di Marco De Leo

Panofsky e il Rinascimento allargato



L’immagine insepolta[1] di Georges Didi- Huberman, oltre ad essere un caposaldo imprescindibile
della letteratura su Aby Warburg è anche, tra le tante cose, un atto d’accusa mosso contro Erwin
Panofsky ed Ernst Gombrich, colpevoli agli occhi dell’autore di non aver compreso a fondo
e di aver impoverito i concetti warburghani fondamentali, in primis quello di Sopravvivenza.
(L’esorcismo del Nachleben: Gombrich e Panofsky
, è l’esplicito titolo dell’ottavo capitolo della
prima parte del volume).
E’ Panofsky in particolare “il grande esorcista”, colui che riduce il tema della sopravvivenza a
semplice problematica di influenza, che esclude dal Rinascimento tutti i tumulti e le contraddizioni
rilevati da Warburg; il Rinascimento (ri)diventa nelle sue manì l’età dell’oro, il periodo dell’ “acme
artistico, di autentica archeologia e, quindi, di purezza stilistica”.
Didi-Huberman rileva, negli scritti panofskyani, addirittura una ripresa diretta dell’idealismo di
Vasari e Winckelmann.
E’ davvero questa l’idea di Rinascimento del sistematizzatore dell’ Iconologia? Anche Salvatore
Settis sembrerebbe d’accordo: il processo della Storia nell’ottica di Panofsky culmina in un happy
end
[2], quello rinascimentale, per l’appunto.




Qualche mese fa Abscondida ha ripubblicato il volume- curato da Irving Lavin- con i Tre saggi
sullo stile
[3]. Il primo è uno scritto sul Barocco del 1934 che Panofsky non aveva mai voluto
pubblicare.
Perché mi sembra così importante questo saggio denigrato più volte, per vari motivi, dal suo stesso
autore? Perchè, nella parte conclusiva, sembra contraddire tutto quello che Didi- Huberman contesta: il Rinascimento come “età dell’oro”, Panofsky come “neo- Vasari”. La fondamentale conseguenza è che le carte vengono a scompigliarsi: quello che credevamo certo del discorso storico panofskyano in realtà non lo è affatto.
E oltre a questo, il Nostro propone una visione del rapporto tra Rinascimento e Barocco quanto mai interessante e sicuramente inusuale.
Lascio la parola all’imputato.
“Lo stesso Rinascimento, fondato sulla ripresa della classicità e su un naturalismo che nulla aveva di classico, accentuando tali tendenze entro l’ambito di una cultura essenzialmente cristiana, era approdato a uno stile che, pur con tutti i suoi innegabili meriti, rivela un certo dissidio interno”.
Ecco dunque i termini del problema: classicità, naturalismo anticlassico, e cristianesimo, che
formano un insieme complesso e contradditorio (il che, a dispetto delle accuse di Didi-Huberman, rende l’idea panofskyana di Rinascimento non così lontana da quella di Warburg ).
E’ vero, aggiunge Panofsky, che “lo stile del pieno Rinascimento di Leonardo e Raffaello è una
splendida riconciliazione di queste tendenze contradditorie”, ma è altrettanto vero che si tratta di
casi isolati, di soluzioni non sistematiche che rimangono all’interno di una cultura che il dissidio lo
vive senza risolverlo.



Tocca dunque al Barocco risolvere il dissidio, poiché esso “è l’unica fase della civiltà
rinascimentale in cui vengono superati i conflitti che la agitano, non rimuovendoli (come nel
classicismo cinquecentesco), ma prendendone coscienza e trasformandoli in un’energia emozionale soggettiva”.
Abbiamo in questo passaggio due conclusioni fondamentali: se “età dell’oro” c’è stata, essa non si svolge nel quattrocento e nel cinquecento, ma nel seicento barocco. E, fatto non meno importante, il Barocco non nasce come reazione al Rinascimento, ma si presenta come “il suo secondo grande apogeo”.
Panofsky, insomma, giunge a due conclusioni inaspettate se non addirittura innovative.
E non si ferma qui: v’è un’ultima conclusione non meno inaspettata e non meno innovativa: “Il Rinascimento, se lo intendiamo […] come una delle tre grandi fasi della storia umana, […] terminò molto dopo la fine del Cinquecento, all’incirca all’epoca in cui morì Goethe e vennero costruite le
prime industrie”.

Per concludere, ritorno a quanto dicevo all’inizio: questo saggio, oltre a proporre un’idea insolita
del rapporto tra Rinascimento e Barocco, e una considerazione quanto mai allargata della nozione
stessa di Rinascimento, ha un’importanza notevole perché viene a portare l’incerto in quel che si
credeva certo, a rendere più problematica la ricostruzione e la valutazione del pensiero di Panofsky.
Una sua lettura è insomma indispensabile, per questi e altri motivi che qui tralascio.

[1] Bollati Boringhieri, 2006
[2] Riportato da C. Cieri Via in "Nei dettagli nascosto" (Carocci 2009)
[3] Abscondida, 2011


di Mario Cobuzzi

venerdì 11 novembre 2011

Gli scarabocchi di Keita

Niente e' come sembra con Sagaki Keita.
Questo abilissimo illustratore Giapponese esegue copie esatte di dipinti famosi 
come La grande onda di Kanagawa o la Gioconda scomponendoli in milioni di piccole figure 
spesso improvvisate e dal gusto surreale.
 


 


Il suo lavoro e' interamente incentrato sul dettaglio ed eseguito con penna e inchiosto.
 Impressionante è soprattutto sua la capacita' di restituire
immagini "dal gusto classico" che siano interamente realizzate da un turbinio di scarabocchi
che si riallacciano alla tradizione grafica giapponese e la piu' contemporanea Doodle art.
 



 


 
di Giulia T. 

Richard Vergez


Sento il dovere di presentarvi un giovane artista americano di cui mi sono recentemente innamorata (lui ancora non lo sa), e da cui abbiamo preso in prestito la nostra icona minimale che campeggia provvisoriamente nel nostro neo-nato blog. 

Il suo nome è Richard Vergez, studia graphic design alla Florida Atlantic University e sforna prolificamente innumerevoli opere, principalmente collage e fotomontaggi, richiamandosi, senza nemmeno tentare molto di mascherarlo, ai modi del collage dadaista (alla Hannah Hock), al Bauhaus (Làszlò Moholy-Nagy) e alla tecnica dell'avanguardia costruttivista russa (ovviamente Rodcenko) da cui riprende lo stile minimale, il lavoro di grafico e in parte anche la sua base teorica: costruisce infatti comosizioni di grandissimo impatto utilizzando frammenti di realtà a noi più o meno familiare. 
Possiamo trovare così a sovrapporsi tra di loro immagini di un passato vicino e lontano, vivi della nostra memoria visiva. E decisamente attuali più che mai nell'era del bombardamento del web e della moda del revival più o meno vintage, insomma nell'era dell'accozzaglia. E ammiro chi riesce a comporre questo marasma con tanta eleganza, poesia e senza sdegnare a volte un po' di torni crudi. Illustrazioni pubblicitarie anni 60, fotografie vintage dell'album di famiglia e elementi di grafica e fotografia contemporanea rassicurano il nostro sguardo in quanto frammenti che il nostri occhi riconoscono, e allo stesso tempo però, rismontati e ricomposti come sono, ci straniano in un gioco di dissonanze, che ha del surrealismo hard-core. Insomma, una semplicità unica, senza pretese eppure di grande impatto, che personalmente trovo favoloso.

Inoltre è attivo come grafico pubblicitario e musicale: principalmente manifesti e dischi per la Radio Active Records, ed ha un gruppo di musica sperimentale post-punk: Drowing The Virgin Silence. Fa anche parte di un collettivo di performace musicale molto curioso: Psychic Youth, Inc.





Per maggiori info:
Godetevelo.

di Otta V.


giovedì 10 novembre 2011

A. Rodčenko - Palazzo delle Esposizioni, Roma

11 Ottobre 2011 - 8 Gennaio 2012

Curatore: Olga Sviblova







In occasione dell'anno degli scambi culturali Italia-Russia, il Palazzo delle Esposizioni presenta due rassegne dedicate all'arte russa del '900. La prima segue l'evolversi del realismo socialista dell' (ex)Unione Sovietica, dal fermento ottimista e dinamico figlio della rivoluzione d'ottobre fino all'irrigidimento staliniano e al trionfo dell'arte di partito, propagandista e proletaria: arte di contenuti, fatta di enormi tele in odor di anacronismo stantio, così distante dalle contemporanee sperimentazioni formali europee e americane.
Quand'ecco che, dietro un pannello in fondo alla galleria centrale, inaspettatamente si apre lo spazio monografico dedicato ad Aleksandr Rodčenko, grande protagonista (con il suo amico e collaboratore Majakovskij) di questa stagione culturale. Trecento opere, tra fotomontaggi, stampe e fotografie originali testimoniano l'affermarsi e il maturare dell'opera di Rodcenko, in un contesto storico in cui sperimentazione artistica e politica sociale combaciano. Sono della seconda metà degli anni '20 le prime opere in cui l'artista associa allo strumento fotografico i principi ideologici del costruttivismo, sviluppando quello che sarà poi conosciuto come "metodo Rodčenko". Col passare degli anni e di riflesso alle trasformazioni politiche e sociali dell'Unione Sovietica anche l'opera di Rodčenko si modifica, orientandosi nettamente verso un'estetica più propriamente realista, senza mai rinunciare a quelle cifre stilistiche (tagli diagonali, netti contrasti cromatici o luministici, etc..) che fanno di questo artista un autore inconfondibile, sia che si cimenti con manifesti e copertine entusiastici e rivoluzionari, sia nei panni del fotoreporter di regime tra grandi opere infrastrutturali e maestose parate sportive.

JaneLane