Strettoie. Vicoli claustrofobici e campi improvvisi. Ponti, banchine e piccole barche ormeggiate. Rio, calle e sestiere: solo abbandonandosi al loro volere si troverà la direzione, il loro significato. "Perché vuoi combattere contro il labirinto? Assecondalo, per una volta. Non preoccuparti, lascia che sia la strada a decidere da sola il tuo percorso, e non il percorso a farti scegliere le strade. Impara a vagare, a vagabondare. Disorientati. Bighellona", questo invita a fare Tiziano Scarpa nella sua personale guida alla città lagunare.
E' la mia prima volta all'Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia. Un particolare fondamentale cattura subito la mia attenzione: solo una città come questa, caratterizzata da una precisa topografia, da un ordine - disordine che solo lei ha, può ospitare una Esposizione così estesa, labirintica, vorticosa.
ILLUMInazioni. E' questo il titolo scelto per l'edizione 2011. Un titolo che pone l'accento sul mondo dell'arte, comunità d'intenti e non semplice colonia di individui che agiscono soli, e sull'esperienza che ci si appresta a vivere, illuminante appunto.
I riferimenti alla poesia di Rimbaud, agli scritti di Benjamin e alla struttura in padiglioni dell'esposizione, sono evidenti, soprattutto quando, nel mezzo del Padiglione Centrale, ci si imbatte in tre opere di Jacopo Tintoretto ("L'ultima cena", "Il trafugamento del corpo di San Marco" e "La creazione degli animali"), maestro della luce. Tra le scelte più inaspettate dell'intera mostra. Come spiega Bice Curiger, curatrice di ILLUMInazioni, “nell’arte di Tintoretto la luce non è né fresca né legata in maniera armonica, bensì ‘esaltata’ e talora febbrile. La presentazione di Tintoretto alla Biennale non mira in alcun modo a postulare una ’eternità classica’. Invece di indagare sulle analogie superficialmente formali che potrebbero sussistere fra Tintoretto e l’arte contemporanea, si fa riferimento a un’energia pittorica assolutamente ‘anticlassica’. Un’energia che si nutre anche della frizione provocata dal fatto che un antico pittore ardito sia finito in un contesto attuale”.
-Nazioni- come spazi storico-temporali che si fondono, come nel caso appena descritto, ma anche come confini che rompono i confini stessi: questo, ad esempio, il compito dei cosiddetti parapadiglioni. Song Dong, Monika Sosnowska, Oscar Tuazon e Franz West sono stati invitati a dar forma ad un parapadiglione ciascuno, in modo da potere ospitare al loro interno le opere di altri artisti. In questo modo, nel percorso espositivo si incontrano condensazioni e intrecci di espressioni artistiche. A differenza della consueta “narrazione” additiva, che dispone una accanto all’altra le opere di singoli artisti nell’ambito di mostre collettive, i parapadiglioni mirano a dinamizzare la presentazione. Sono sorte così nuove forme di collaborazione tra gli artisti. Come nel caso del parapadiglione di Tuazon, che ospita al suo interno un’opera di Asier Mendizabal, mentre Ida Ekblad utilizza le pareti esterne come sfondo pittorico del suo intervento. Franz West presenta a Venezia la ricostruzione della cucina della sua casa di Vienna. Le opere dei suoi amici artisti che sono lì solitamente esposte compaiono ora sui muri esterni della struttura, mentre all’interno Dayanita Singh presenta la proiezione Dream Villa.
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Song-Dong, L’intelligenza della povera gente |
Dinamismo. Collettività. Relazioni temporanee e transitorie ma colme di energia.
A tutto questo si aggiunge anche il coinvolgimento attraverso una serie di domande, imperniate appunto sul significato di spazio-nazione-luce, considerando i numerosi slittamenti semantici del caso:
- la comunità artistica è una nazione?
- quante nazioni ci sono dentro di lei?
- dove si sente a casa?
- che lingua parlerà il futuro?
- se l’arte fosse uno stato, cosa direbbe la sua costituzione?
Insomma, un'arte eterodossa e sperimentale, al contempo fondata su una comunanza di intenti, che mai perde di vista il milieu culturale dal quale i singoli artisti provengono.
Eterodossi e sperimentali sono anche gli ambienti che ospitano le numerose opere: spazi dislocati sull'intero territorio lagunare, dal fulcro costituito dai Giardini e dall'Arsenale, agli antichi palazzotti e piccole gallerie.
Oblitero il mio biglietto e il viaggio può cominciare. Il tempo di perdermi un paio di volte, quanto basta per inciampare, casualmente, nella mini esposizione di un certo Frog King, il Re Rana, direttamente da Hong Kong. Uno dei numerosi eventi collaterali che colorano il perimetro dell'area principale. Un pugno nello stomaco alle 10 del mattino: il cortile di una vecchia casa con affaccio diretto sul canale è la sua corte.
Frogtopia, è la costruzione mentale in cui si trovano i valori artistici del Re, il suo modo di trascendere le convenzioni artistiche. Il pubblico è invitato a modificare il proprio aspetto: occhiali, parrucche, preziosi in plastica aiutano nella trasformazione. Il soggetto diventa per pochi secondi protagonista assoluto della propria creazione artistica.
Mi ritrovo, finalmente, all'ingresso dell'enorme e severo spazio dell'Arsenale. Il libero fluire di ambiente in ambiente, il ritornare sui propri passi, lo sbirciare, il perdere l'orientamento, la regressione infantile che mi assale di fronte a materiali modellabili, l'invito a toccare e ad impossessarsi dell'opera, le forme concave e attraversabili, la miriade di suoni che scorrono all'unisono, sono più forti di qualsiasi percorso tracciato sulle odorose mappe famelicamente ritirate all'inizio del labirinto.
"Secondo me l'anima è qualcosa che va più lenta del nostro pensiero, fluttua lentamente e il gioco della mente la rende distante dal vero".
Mi sento così varcando le soglie degli ambienti che si susseguono, senza sosta, senza preavviso. Arabia Saudita, Argentina, India, Croazia, Turchia, Emirati Arabi, Cile. Il primo segmento termina qui. Di fronte acqua ghiacciata e in lontananza il campanile di piazza San Marco.
La stessa lentezza che domina la distruzione del fuoco nell'opera di Urs Fischer, le cui statue sono sottoposte ad una costante mutazione, o quella che detta i cambiamenti di luce e suono nella Black Arch di Raja e Shadia Alem (Arabia Saudita), quella stessa lentezza stabilisce il mio ritmo: le prime 2 ore sono passate.
"Io solo ho la chiave di questa parata selvaggia". [Arthur Rimbaud, da "Illuminazioni"]
Il Padiglione Italia è, fuor di dubbio, il più chiacchierato, vessato, criticato, difeso. Citando una dichiarazione dello stesso Vittorio Sgarbi, curatore dell'Esposizione italiana: "Quest'anno il Padiglione Italia è stato criticato in modo feroce, se possibile più di ogni altra volta. Eppure la Biennale, e anche quel Padiglione, non ha mai avuto tanti visitatori. Bisogna quindi sperare di farla particolarmente brutta perché sia molto vista. Proverò a farla bella perché non ci vada nessuno".
La questione, dal mio personale punto di vista, non è solo estetica. Essa ha almeno tre ulteriori sfumature: la prima, più pratica e corporea, riguarda il rapporto che il visitatore instaura con l'esposizione delle opere, la disposizione e la presentazione, l'incontro/scontro che si è costretti a vivere non appena ci si lascia alle spalle l'insegna di benvenuto "L'arte non è cosa nostra", titolo scelto per questo enorme ammasso di creazioni, più o meno, artistiche. Strettamente correlate alla prima le altre due sfumature: da una parte l'intento del curatore di sottolineare l'autonomia dell'arte e la necessità di salvaguardarla da agenti estranei, la mafia dei critici d'arte, dei galleristi, dei collezionisti, ma anche la mafia vera, nel cui nome viene eretto un museo, per l'occasione trasferito a Venezia da Salemi, con un effetto a scatola cinese, che a tratti puzza di trovata pubblicitaria.
La terza sfumatura, istantanea dell'abisso in cui versa la situazione intellettuale, culturale e artistica contemporanea nel nostro bel paese, riguarda la cesura di qualsiasi gerarchia di valori: le opere qui esposte, private di un giudizio critico, possono, anzi, devono sottostare alla logica del deposito.
Citando un'affermazione di Ian Burn, del 1975, "Non solamente le opere d'arte finiscono per essere delle merci, ma si ha la schiacciante sensazione che esse comincino la loro vita proprio come merci", all'interno del Padiglione Italia una cosa è certa: il risultato finale di un processo, l'opera, è declassata, ridotta a cosa tra le cose.
Il senso di confusione generale che colpisce l'intero sistema del mondo dell'arte, colpisce anche me. Disorientamento è ciò che avverto, mancanza di strumenti di comprensione adatti a districare questa massa informe.
Accantonando la logica dell'aut-aut, Sgarbi adotta quella dell'et-et, della babele linguistica, della commistione di alfabeti diversi, spesso lontani. Il caos, in una sola parola. Privo, però, di qualsiasi parvenza di forma. Nessuna esclusione, solo massiccia integrazione. Nessun punto, solo virgole. Aleggia sulle sale la volontà di sfruttare al massimo ogni minimo millimetro a disposizione. Nessuna didascalia: solo cubi, all'occorrenza sgabelli, riportano i nomi dei personaggi di cultura chiamati in causa non in quanto esperti conoscitori del linguaggio dell'arte, ma investiti di un ruolo che prevede libertà di azione, compresa quella di non dovere tenere necessariamente in considerazione vincoli e convenzioni.
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Padiglione Italia |
Accanto l'artista da essi pre-scelto.
Il linguaggio, di conseguenza, perde la sua specificità. Ne risente fortemente il risultato finale: l’indistinto che supera ogni convenzione, è un trabocchetto dove i primi a essere danneggiati sono gli artisti più giovani. Gli artisti noti e con un percorso solido alle spalle si salvano, gli artisti giovani e per questo poco conosciuti, rischiano di scomparire nell’indistinto prima ancora di affermarsi.
Non riesco a scorgere nessuna linea provocatoria, solo tanta retorica fine a se stessa. L'intera mostra viene sottratta alla critica, quindi alla storia. Come si può rendere giustizia ad un'opera se proprio quest'ultima viene collocata in un punto qualsiasi in completa assenza di continuità storica?
Non c'è sovvertimento, almeno ai miei occhi, ma solo riproposizione dell'esistente: è impossibile prescindere dal krinein senza correre il rischio di innescare cortocircuiti difficili da digerire.
"Il mondo dell'arte nel suo insieme, e i musei in particolare, appartengono a quello che è stato giustamente definito industria della coscienza. Io credo che l'uso del termine industria per l'intera rete delle attività di quelli che sono impegnati, stabilmente o come free lance, nel campo dell'arte, abbia un effetto salutare. In un solo colpo questo termine spazza via le nuvole romantiche che avvolgono le nozioni spesso mitiche e ingannevoli utilizzate ampiamente per quello che riguarda la produzione, distribuzione e consumo dell'arte". [Hans Haacke, 1985]
Mai affermazione fu più oracolare e il rischio di declassare l'arte a puro décor, a tappezzeria dello sguardo fugace dei turisti, a semplice location pubblicitaria, è sempre dietro l'angolo.
Se si scorre la lista degli uomini e delle donne di cultura invitati da Vittorio Sgarbi a indicare un artista da esporre al Padiglione Italia, si posso fare incontri interessanti e, al contempo, sorprendenti. A tratti incomprensibili.
Ad esempio, ci si può chiedere il perché della presenza in lista di Walter Siti, Bernardo Bertolucci, Ferzan Ozpetek, Mimmo Calopresti, Furio Colombo, Toni Servillo, Dario Fo, Tiziano Scarpa… tutti scrittori, attori, registi e critici d'arte (ma non erano stati banditi dallo stesso curatore?).
Del tutto naturale, secondo la prospettiva inclusiva del curatore, la presenza in lista di personaggi come Vladimir Luxuria, Marina Ripa di Meana, Morgan, Luciana Littizzetto, Gene Gnocchi e Fabio Fazio.
Bastano pochi istanti e la mia attenzione è colpita dalla presenza di note stridenti, senza alcun collegamento non tanto con l'intera esposizione, quanto con il presente, il contemporaneo che avanza. Baudelaire li avrebbe definiti "copisti del dizionario".
Tre nomi su tutti: Monica Ferrando, autrice di un pastello che si lascia alle spalle decenni di sperimentazione sui materiali più disparati; Silvio Lacasella, paesaggista spaesato; Paolo Giorgi, autore di un interno con ragazza distesa malinconica sul sofà. Il non riuscire a scorgere una minima tangenza tra queste tre opere, prese ad esempio, il lavoro di Pablo Echaurren, il quale precisa "Presa visione dell’allestimento del Padiglione Italia, ritengo che i criteri adottati nel presentare al pubblico i lavori siano lesivi e offensivi della dignità degli artisti. Mi riferisco in particolare alle opere affastellate su vari livelli in altezza, secondo modalità che ne rendono impossibile la lettura. Per questo motivo ho deciso di ritirare la mia opera. Laddove questa operazione non fosse immediatamente realizzabile per questioni tecniche, chiedo che il mio quadro venga coperto con un telo affinché risulti del tutto invisibile", o quello di Jannis Kounellis, e l'intero contesto, avvalora la tesi iniziale: quella del Padiglione Italia è una realtà autoreferenziale e refrattaria al dialogo con tutto ciò che la circonda.
Sono alla fine del Padiglione. Decido di tornare indietro e ripercorrere irrazionalmente l'intero spazio, senza ricercare collegamenti concettuali né plausibili spiegazioni all'operato del curatore e degli artisti, almeno alcuni di loro.
Mi vengono in mente Gilles Deleuze e Felix Guattari e il loro pensiero rizomatico in cui la radice principale si distrugge verso la sua estremità e s’innesta su di essa una molteplicità immediata e comune di radici secondarie che assumono un grande sviluppo. Così mi appare per un istante l'esposizione italiana. Opposizione al dualismo e alla dialettica. I punti di contatto risiedono nel molteplice e nella non sequenzialità.
Penso all'ordine molecolare alla base dei flussi, a loro volta caratterizzati dal divenire: spazio tensivo fra due termini, «tra» non «da-a». Quello che avviene nella distribuzione delle opere: non punti fissi, ma linee; nessuno schema, ma rottura dei confini.
“Il rizoma connette un punto qualunque con un altro punto qualunque ed ognuno dei suoi tratti non rinvia necessariamente a tratti della stessa natura; mette in gioco regimi di segni molto differenti ed anche stati di non-segni. Il rizoma non si lascia riportare né all’uno né al molteplice. Non è fatto di unità ma di dimensioni o piuttosto di direzioni in movimento, non ha inizio né fine ma sempre un mezzo, per cui cresce e straripa".
Non c'è unità nel rizoma come nel Padiglione Italia edizione 2011. In qualsiasi punto il rizoma venga interrotto o spezzato, esso riprende seguendo questa o quella linea. E' quello che accade all'interno di questo labirinto.
Ultima immagine: un piccolo televisore mi regala un Vittorio Sgarbi paonazzo che urla senza sosta "Capra!".
"È stato una volta che lessi una favoletta dal titolo "I tre prìncipi di Serendippo". Quando le loro altezze viaggiavano, continuavano a fare scoperte, per accidente e per sagacia, di cose di cui non erano in cerca: per esempio, uno di loro scoprì che un cammello cieco dall'occhio destro era passato da poco per la stessa strada, dato che l'erba era stata mangiata solo sul lato sinistro, dove appariva ridotta peggio che sul destro - ora capisce la serendipità? Uno dei più ragguardevoli esempi di questa casuale sagacia (lei deve infatti notare che nessuna scoperta di cosa che si stia cercando può ricadere sotto tale descrizione) è stato quello del mio Lord Shaftesbury, il quale, capitato a pranzo dal Lord Chancellor Clarendon, si accorse del matrimonio del duca di York e di Mrs. Hyde, dal rispetto con cui la madre di quest'ultima trattava la figlia a tavola." [W. S. Lewis]
Da questo punto in poi mi abbandono alla più completa serendipità. Raggiungo il Padiglione Centrale dopo aver attraversato il bosco di pennoni senza bandiere dell'artista marocchina Latifah Echakhch, riprendo un pò di fiato di fronte alle tre citate opere di Tintoretto, e poi un susseguirsi di incontri, come detto, inaspettati: Philippe Parreno e i suoi bulbi luminosi, Cindy Sherman e le sue gigantografie, Pipilotti Rist, Sigmar Polke, Monica Sosnowska e il suo parapadiglione, Norma Jean e la sua sala giochi… il tutto con una presenza costante: i piccioni imbalsamati di Maurizio Cattelan, il quale ci tiene a precisare che questi animali saranno la sua ultima opera, prima di ritirarsi definitivamente.
Ultima tappa: la selva degli altri Padiglioni nazionali, sparsi sull'area dei Giardini. Decido di non seguire il regolare tracciato: mi lascio sorprendere. Quel che avviene, ad esempio, di fronte, o meglio, all'interno dell'imponente macchina progettata da Christian Boltanski, "Chance". Un altro labirinto da attraversare, fatto di tubi e immagini di neonati, metafora del caso che domina la vita e la morte, rappresentate a loro volta da due grandi calcolatori che, freddamente, registrano nascite e perdite.
E poi il Padiglione Germania, insignito del Leone d'Oro. Christoph Schlingensief, morto nel dicembre del 2010, ci parla della sua vita, della sua malattia, della passione cinematografica, dell'influenza esercitata da Joseph Beuys e Fluxus sulla sua arte, condensando il tutto nella ricostruzione, a tratti commovente, della chiesetta di Oberhausen, dove l'artista serviva messa da ragazzino. Vengo letteralmente ipnotizzata: proiezioni di film, suoni, luci, mi accompagnano all'uscita quasi stordita.
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Christoph Schlingensief, Church of fear |
Non molto lontano il Padiglione Britannico con la colossale opera di Mike Nelson, "Impostor", ricostruzione minuziosa di un caravanserraglio: è incredibile la precisione dedicata ad ogni minimo dettaglio. Muffe, coperte impolverate, spazi angusti, centinaia di foto che pendono dal soffitto di una camera oscura. Questa esposizione è capace di togliere il respiro.
E ancora, il minimale Padiglione Svezia di Fia Bakstrom e Andreas Eriksson, con tronchi di quercia che attraversano il soffitto, e il coloratissimo Padiglione Venezuela, con il "Gran Interior" di Francisco Bassim che raccoglie simboli e personaggi della cultura moderna, caricaturizzati.
Il mio viaggio termina con il Padiglione Spagna, quello che più mi lascia pensare. Fa da contraltare a quello Italiano, sin dal titolo, emblematico: "L'Inadeguato. Lo Inadecuado. The Inadeguate". Dora Garcia offre ospitalità provvisoria al Museo dell’arte contemporanea italiana in esilio, esperienza itinerante nata da un progetto di Cesare Pietroiusti, esteso poi ad artisti esuli intercettati, con lo scopo, secondo le parole dello stesso ideatore, di "individuare personalità singole o collettive che svolgono attività creative sorprendenti, eterodosse, fuori dai circuiti della comunicazione mediatica". Il pubblico viene coinvolto in dibattiti incentrati su due concetti chiave, l'esilio e le forme di marginalità nelle produzioni artistiche. I campi di indagine sono aree di disagio sociale, in istituzioni psichiatriche, penitenziarie e riabilitative in genere, senza tralasciare personaggi isolati, eccentrici, border-line, che si dedicano ad attività bizzarre, indefinite, e che magari sono noti soltanto a piccole comunità. Il pensiero va subito all'Art Brut di Jean Dubuffet. Tutto quello che nel Padiglione italiano istituzionale è totalmente assente: al contrario di Pietroiusti, Sgarbi ha preferito costruire il deposito accademico del presente assoluto, nonostante le sue tanto decantate velleità rivoluzionarie.
Sono fuori. Un campanile mi avverte che sono le 18. Gente a frotte si riversa all'esterno. Cerco di rubare qualche riflessione, le critiche, gli apprezzamenti. Ho la testa che mi gira, piena com'è di immagini di ogni tipo. Incapace di appigliarmi a qualcosa, ho preso appunti, rubato istanti. E' come se di tutto quello che ho visto non avessi capito nulla. Non riesco a formulare subito un giudizio preciso ma mi ritorna in mente l'opera di Giulio Paolini, di dechirichiana memoria. Un bigliettino ingiallito, protetto da una teca in plexiglas. Recita: "Et quid amabo nisi quod aenigma est?".
di Alessandra Addante