mercoledì 28 dicembre 2011

Un noir tinto d'azzurro - Dimmi che non vuoi morire

Massimo Carlotto e Igort, “Dimmi che non vuoi morire”. Mondadori, 2007

Accade spesso nei romanzi e nei racconti noir che la narrazione sottolinei fin dall’incipit che si è di fronte a qualcosa di violento, sporco, in cui ciò che è in gioco non è solo l’intrigo che porta alla soluzione finale del caso. Anzi. Di frequente questa soluzione non c’è, per il semplice motivo che non può esserci lieto fine se il cerchio non si chiude, o peggio si è costretti a fare i conti con una realtà che non è iniziata con il consueto “c’era una volta” e evidentemente non termina con “…e vissero felici e contenti”.



Stando a questa premessa, appare forse strano che in “Dimmi che non vuoi morire” – uno straordinario romanzo grafico scritto da Massimo Carlotto per le matite di Igort – il racconto inizi con un “tranquillo” viaggio in nave giunto quasi al termine, a poche miglia dalla meta: la costa della Sardegna. Non c’è sangue, né uno sparo o una corsa nella notte per sfuggire alle sirene spiegate che ti inseguono. Tutto apparentemente fermo. E invece no. Il viaggio porta subito i tre protagonisti (l’Alligatore, Max La Memoria e Beniamino Rossini) al cospetto di uno squallido personaggio, nel cui volto e nei cui modi si rispecchia la faccia più arrogante e beffarda del potere e del malaffare. Un personaggio che trascinerà gli eventi delle pagine successive in una discesa verso il basso del raggiro e del piccolo interesse egoistico, qualità che legano molti dei personaggi presenti nel racconto. Se da un lato, quindi, la narrazione prosegue sul binario consolidato del noir, fra nebbie padane e luminose facciate di palazzi sardi – senza disdegnare un breve salto a Parigi - dall’altro questa è sostenuta abilmente dal semplice ed efficace tratto di Igort, disegnatore di grande esperienza, capace con la grafite delle sue matite e le piatte campiture d’azzurro, di accompagnare il racconto lungo quell’ “oscura limpidezza” attraverso cui Carlotto ha scelto di farlo scorrere. Igort non è un autore che cede al decorativismo e all’abbondanza dei particolari per suggerire le scene in cui sono coinvolti i personaggi e, se ciò è ben visibile sfogliando le pagine del racconto, diventa ancor più evidente in quelle poste al termine del volume, in cui semplici chine al tratto commentate da poche righe scritte proprio dall’artista illustrano il “making of” che ha portato alla realizzazione finale delle tavole. A questo proposito è interessante sottolineare quanto Igort scrive a commento di uno degli schizzi in questione: “Mi pacciono queste ombre a pennello che diventeranno gli azzurri del libro. Se un disegno regge lo vedi anche solo dalle ombre”. È infatti sulle ombre che si gioca il lavoro dell’autore in questo romanzo grafico. Si tratta pur sempre di ombre nette, nonostante l’utilizzo del tratto a matita, senza ausilio di chine, possa inizialmente suggerire una volontà di resa più delicata dei contrasti chiaroscurali. Matita dicevamo, ma accanto a essa svettano le campiture azzurre, di tonalità non brillante (e come potrebbe essere altrimenti se qui nulla lascia spazio al sorriso). Dal gioco sapiente di questi due elementi Igort ricrea le atmosfere più o meno illuminate che coinvolgono gli attori in scena, dosando il tratto azzurro per stabilire gli effetti luminosi e rendere il buio di stanze notturne prive di luce.



Un’ultima notazione merita una delle tavole finali del libro: al centro della pagina un riquadro rettangolare ospita una griglia suddivisa in nove scomparti in cui è proprio l’azzurro a farla da padrone. Niente luci, niente chiaroscuro, solo la successione di alcuni elementi evocativi della storia che si avvia inesorabilmente verso la fine. Una nave, un braccio. E poi corpi di donna, alberi spogli e una pistola. Sono oggetti all’apparenza muti, e continuerebbero a esserlo se ci si lasciasse ingannare dall’assenza di parole di questa tavola. Ma chi ha letto le pagine precedenti sa bene che ognuno di essi ha molto da raccontare, in questa amara storia di brutti ceffi e sporchi affari.



di Marco Pacella

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