mercoledì 28 dicembre 2011

Un noir tinto d'azzurro - Dimmi che non vuoi morire

Massimo Carlotto e Igort, “Dimmi che non vuoi morire”. Mondadori, 2007

Accade spesso nei romanzi e nei racconti noir che la narrazione sottolinei fin dall’incipit che si è di fronte a qualcosa di violento, sporco, in cui ciò che è in gioco non è solo l’intrigo che porta alla soluzione finale del caso. Anzi. Di frequente questa soluzione non c’è, per il semplice motivo che non può esserci lieto fine se il cerchio non si chiude, o peggio si è costretti a fare i conti con una realtà che non è iniziata con il consueto “c’era una volta” e evidentemente non termina con “…e vissero felici e contenti”.



Stando a questa premessa, appare forse strano che in “Dimmi che non vuoi morire” – uno straordinario romanzo grafico scritto da Massimo Carlotto per le matite di Igort – il racconto inizi con un “tranquillo” viaggio in nave giunto quasi al termine, a poche miglia dalla meta: la costa della Sardegna. Non c’è sangue, né uno sparo o una corsa nella notte per sfuggire alle sirene spiegate che ti inseguono. Tutto apparentemente fermo. E invece no. Il viaggio porta subito i tre protagonisti (l’Alligatore, Max La Memoria e Beniamino Rossini) al cospetto di uno squallido personaggio, nel cui volto e nei cui modi si rispecchia la faccia più arrogante e beffarda del potere e del malaffare. Un personaggio che trascinerà gli eventi delle pagine successive in una discesa verso il basso del raggiro e del piccolo interesse egoistico, qualità che legano molti dei personaggi presenti nel racconto. Se da un lato, quindi, la narrazione prosegue sul binario consolidato del noir, fra nebbie padane e luminose facciate di palazzi sardi – senza disdegnare un breve salto a Parigi - dall’altro questa è sostenuta abilmente dal semplice ed efficace tratto di Igort, disegnatore di grande esperienza, capace con la grafite delle sue matite e le piatte campiture d’azzurro, di accompagnare il racconto lungo quell’ “oscura limpidezza” attraverso cui Carlotto ha scelto di farlo scorrere. Igort non è un autore che cede al decorativismo e all’abbondanza dei particolari per suggerire le scene in cui sono coinvolti i personaggi e, se ciò è ben visibile sfogliando le pagine del racconto, diventa ancor più evidente in quelle poste al termine del volume, in cui semplici chine al tratto commentate da poche righe scritte proprio dall’artista illustrano il “making of” che ha portato alla realizzazione finale delle tavole. A questo proposito è interessante sottolineare quanto Igort scrive a commento di uno degli schizzi in questione: “Mi pacciono queste ombre a pennello che diventeranno gli azzurri del libro. Se un disegno regge lo vedi anche solo dalle ombre”. È infatti sulle ombre che si gioca il lavoro dell’autore in questo romanzo grafico. Si tratta pur sempre di ombre nette, nonostante l’utilizzo del tratto a matita, senza ausilio di chine, possa inizialmente suggerire una volontà di resa più delicata dei contrasti chiaroscurali. Matita dicevamo, ma accanto a essa svettano le campiture azzurre, di tonalità non brillante (e come potrebbe essere altrimenti se qui nulla lascia spazio al sorriso). Dal gioco sapiente di questi due elementi Igort ricrea le atmosfere più o meno illuminate che coinvolgono gli attori in scena, dosando il tratto azzurro per stabilire gli effetti luminosi e rendere il buio di stanze notturne prive di luce.



Un’ultima notazione merita una delle tavole finali del libro: al centro della pagina un riquadro rettangolare ospita una griglia suddivisa in nove scomparti in cui è proprio l’azzurro a farla da padrone. Niente luci, niente chiaroscuro, solo la successione di alcuni elementi evocativi della storia che si avvia inesorabilmente verso la fine. Una nave, un braccio. E poi corpi di donna, alberi spogli e una pistola. Sono oggetti all’apparenza muti, e continuerebbero a esserlo se ci si lasciasse ingannare dall’assenza di parole di questa tavola. Ma chi ha letto le pagine precedenti sa bene che ognuno di essi ha molto da raccontare, in questa amara storia di brutti ceffi e sporchi affari.



di Marco Pacella

martedì 20 dicembre 2011

Meyer Schapiro: lo Stile


Style è uno dei saggi più famosi di Meyer Schapiro1, storico dell’arte lituano di nascita e americano d’adozione, noto per i suoi studi sull’arte medievale e contemporanea, sicuramente inseribile nel pantheon della grande critica d’arte.




Saggio breve e di lettura piuttosto semplice, per chi ha confidenza con la disciplina storico artistica.

Saggio manualistico e di taglio storico: l’autore non ha teorie da esporre, o novità metodologiche da mettere in mostra, ma presenta una rassegna più o meno esaustiva del dibattito critico avutosi intorno al concetto di Stile – se Schapiro, tra i tanti temi possibili, sceglie proprio questo è perché siamo di fronte a quello che è probabilmente il concetto-guida della storia dell’arte in quanto disciplina scientifica: <<Lo stile- la “visibilità” delle arti visive- è il problema centrale che legittima la storia dell’arte come campo di ricerca autonomo>>, scrive Irving Lavin2.

Una lettura quanto meno istruttiva, insomma; sicuramente necessaria, come necessarie sono le letture dei buoni manuali.

Eppure bisogna ammettere che un senso di amarezza, a lettura terminata, un po’ rimane, specie se si conoscono altre opere di Schapiro: perché qui può sembrare che la complessità e la componente altamente stimolante tipiche dei suoi scritti non ci siano; restano la competenza e la lucidità di esposizione, ma nient’altro o quasi.

Ma andiamo con ordine.

<<Per “stile” si intende la forma costante- e talvolta gli elementi, la qualità e l’espressione costanti- dell’arte di un individuo o di un gruppo>>; è così che Schapiro apre il suo saggio, con una definizione netta e precisa, che non lascia spazio ad equivoci.

Poco più avanti aggiunge:<<Ma lo stile è soprattutto un sistema di forme dotato di una qualità e di un’espressione portatrice di significato, che permette di riconoscere la personalità dell’artista e la visione del mondo di un gruppo>>; mi sembra che in questo passaggio lo studioso riveli l’ascendenza della tradizione iconologica sulla propria formazione di studioso; lo stile come rivelatore della <<visione del mondo di un gruppo>> lascierebbe pensare alla nozione panofskyana di forma simbolica.

Inoltre quello dello stile si presenta come concetto qualitativo, che decide della maturità raggiunta dall’arte di un periodo e dalla stessa cultura che l’ha prodotta, specie se più arti differenti presentano tratti stilistici comuni, in quanto <<indizio dell’integrazione di una cultura e dell’intensità di un momento di forte creatività>>; viceversa l’eventuale mancanza di stile determina un giudizio negativo: debolezza e decadenza di un dato periodo artistico e socio-culturale.

Il presupposto di questa concezione è che in un dato periodo storico ci possa essere un solo stile, preciso e chiaramente identificabile; da tutto ciò Schapiro prende le distanze (e lo fa in più punti del saggio, quando per esempio difende la pluralità di stili dell’epoca contemporanea in quanto conquista insostituibile): i principi di anticipazione, fusione e continuità (e quindi di una generale costanza) sono quelli che maggiormente caratterizzano lo sviluppo degli stili: non che non esistano nella storia dell’arte rotture brusche e determinanti, ma più spesso <<limiti precisi vengono fissati per convenzione […] Il singolo nome attribuito allo stile di un periodo raramente corrisponde a una caratterizzazione chiara e universalmente accettabile di un tipo>>. Determinante è quindi la coscienza che lo stile può non essere uniforme: bisogna considerarne <<l’aspetto non omogeneo, instabile, le tendenze oscure verso forme nuove>>, caratteristiche che mettono in discussione l’idea di unità dello stile nelle sue applicazioni nei vari medium artistici.

Dopo aver ribadito l’importanza dello studio dell’arte contemporanea per la comprensione dell’arte del passato e per la nuova considerazione, da essa derivata, di prodotti artistici prima denigrati se non proprio inconsiderati (arti primitive, infantili, psicotiche), lo studioso propone una rapida rassegna degli schemi di sviluppo e successione per come sono stati prodotti dalla critica formalista: sono i nomi di Riegl e Wölfflin insieme a quelli meno noti di Frankl e Löwy a riempire le pagine centrali del saggio. Fatto curioso: uno studioso comunemente considerato anti formalista si sofferma lungamente su teorie formaliste e dimentica di analizzare nello specifico gli studi iconologici e sociologici.

Non che manchi, a dire il vero, l’accenno alle teorie contenutistiche e sociologiche; a queste ultime è riservata la chiusura del saggio, che è anche una critica diretta alle teorie artistiche di Marx; alle prime invece imputa una superficialità di fondo: <<Il rapporto fra contenuto e stile è più complesso di quanto sembri da questa teoria>>, e soprattutto <<i tentativi di desumere lo stile dal pensiero sono spesso troppo vaghi per produrre altro che intuizioni suggestive; il metodo genera speculazioni analogiche che non reggono a uno studio critico dettagliato>>; Schapiro, da ciò, trae una conclusione importante: <<Ma spesso il contenuto dell’opera d’arte appartiene a una regione dell’esperienza diversa da quella in cui si sono formati sia lo stile dell’epoca sia il modo di pensare dominante>>.

Insomma, di questa complessa storia di teorie e metodi applicati allo studio dell’arte, Schapiro propone un bilancio che ne valuta insieme i meriti e le insufficienze; si potrebbe pensare a una sorta di atteggiamento moderato che porta ad accettare “di tutto un po’ ”,e a condannare “di tutto un po’ ”.

Ma in definitiva, sulla questione dello stile, qual’è l’opinione di Schapiro? E qual’è il suo metodo ?

Per rispondere alla prima domanda, non rimane che tornare all’apertura del saggio, a quella formula che ho citato per intero all’inizio e che, a mio avviso, sarebbe da imparare a memoria tanto è giusta.

La seconda domanda, invece, esige una risposta che deve portarci fuori e dentro Style.

Dentro. E’ nella pluralità di metodi che, secondo me, consiste il metodo di Shapiro; un metodo che però non accoglie tutto indistintamente, ma che anzi di ogni approccio propone una verifica e una revisione che lo depuri dagli eventuali errori- questo mi sembra essere uno degli elementi costituitivi di Style in quanto analisi e valutazione storica.

Fuori. Siamo dunque davanti a un concerto depurato, organizzato e armonico di metodologie (e questo non significa che si debba sempre essere d’accordo su tutto).

Perché è’ proprio vero che Meyer Schapiro è uno storico dell’arte atipico3 e multiforme, capace di passare e spesso di fondere insieme raffinate analisi formali ( il capolavoro- nonché ultima opera-L’impressionismo- riflessi e percezioni4), sociologiche (il celebre Natura dell’arte astratta5, esordio dello studioso nel campo dell’arte contemporanea), psicologiche (l’altrettanto celebre Le mele di Cézanne6), senza contare le fondamentali aperture alla semiologia (Parole e immagini7).

Ma appunto l’applicazione di tutta questa ricchezza metodologica e di approcci non è da ricercare specificamente in Style; l’errore che si potrebbe commettere è di cercare qualcosa nel posto sbagliato: qui, quella che ci viene offerta è una via sicura, chiara, precisa, per cominciare l’avvicinamento a quella che per molti versi è (o comunque è sicuramente stata, come appunto dimostrano le pagine schapiriane) la meta ultima della storia dell’arte in quanto disciplina scientifica: la comprensione e definizione di quello che per Gombrich era l’enigma per eccellenza, l’enigma dello stile.




1 L’edizione a cui farò riferimento è quella di Donzelli Editore (1995) con una bella introduzione di Francesco Abbate.

2 I.Lavin,L’umorismo di Panofsky- in Erwin Panofsky, Tre saggi sullo stile, Abscondita 2011

3 C. Cieri Via, Nei dettagli nascosto, Carocci

4 Einaudi 2008

5 Ripubblicato in Alle origini dell’opera d’arte contemporanea,a cura di G.DI Giacomo e C.Zambianchi, Laterza 2008

6 In M.Schapiro, L’arte moderna, Einaudi 1986

7 M.Schapiro, Per una semiotica del linguaggio visivo, Meltemi 2002


                                                                                                                                         Di Mario Cobuzzi

lunedì 12 dicembre 2011

Settis: dal paesaggio estetico al paesaggio etico

Sabato 10 dicembre 2011 a Troia, cittadina a pochi chilometri da Foggia nota per la sua cattedrale romanica, si è tenuto, nell’ambito del progetto Ecotium a cura del Distretto Culturale Daunia Vetus, un incontro col professor Salvatore Settis, personalità che non ha bisogno di troppe presentazioni.
Dopo i soliti interventi di apertura di autorità locali e organizzatori del convegno (molto interessante quello del rettore dell’università di Foggia, l’archeologo Giuliano Volpe) Salvatore Settis si alza in piedi, munito di qualche foglio con appunti, e comincia la sua conferenza.
In via preliminare, si può dire con certezza che lo stile oratorio del grande studioso è invidiabile: la mole di dati, fatti, considerazioni non annoia, non stanca; Settis riesce a mantenere desta l’attenzione di un pubblico eterogeneo, composto di tanti non addetti ai lavori.
E come potrebbe annoiare un discorso che spazia dalla politica attuale alla storia della legislazione artistica, e che chiama in causa il senso civico dei cittadini come un dovere inderogabile attraverso esempi tratti dalla quotidiana lotta per la salvaguardia del nostro patrimonio culturale?
Ecco, è su questo nostro che Settis insiste: un nostro che chiama in causa ognuno di noi in quanto parte della collettività, in quanto agenti attivi della preservazione di un qualcosa di preziosissimo da difendere in nome della memoria del passato e dell’interesse delle generazioni future- non è dunque un caso che Settis abbia come punti di riferimento la gloriosa tradizione italiana della Tutela e la Costituzione del ’48 che di tale tradizione è per molti versi l’atto culminante.
E così lo studioso si rivolge alla Chiesa in quanto istituzione determinante del nostro Paese,
chiamandola alle proprie responsabilità, salutando con entusiasmo la rinnovata attenzione che gli esponenti del clero stanno riservando al patrimonio culturale, dopo i fasti settecenteschi entrati da tempo nella storia della Tutela del patrimonio culturale (Settis non può fare a meno di ricordare l’editto Pacca).
Il concetto di paesaggio è quindi concetto ampio che comprende la sfera laica come quella
religiosa, quella politica e sociale come quella etica (e qui i riferimenti a Croce e ai padri della Costituzione). Il paesaggio diventa specchio della società: i suoi mali attuali rendono manifesti i dissesti politici e sociali della nostra Italia appena uscita dall’era berlusconiana.
Il punto fondamentale del discorso di Settis, l’elemento da cui partire per rovesciare la tragica situazione odierna del patrimonio culturale (beni culturali + beni ambientali) prevede un rovesciamento a monte: dal paesaggio estetico –quello delle cartoline, dei bei dipinti, delle contemplazioni estatiche- si deve passare al paesaggio etico, quello che forma concretamente la persona, che è parte essenziale della sua stessa quotidianità; un paesaggio in cui agire attivamente in nome della sua tutela e della sua trasmissione alle future generazioni (che non sono quelle dei nostri figli e nipoti, aggiunge Settis, ma quelle che si affacceranno al mondo dal prossimo secolo).
L’evoluzione del concetto di paesaggio proposta da Settis diventa quindi una “chiamata alle armi”, esige una presa di coscienza dell’intellettuale (Zanzotto e Pasolini -di cui vengono proposte brevi ma illuminanti letture- tra gli altri) come del semplice cittadino: la de-esteticizzazione del paesaggio è atto di responsabilizzazione; esige la necessità, per lo storico dell’arte, di abbandonare gli atteggiamenti da dandy noncurante chiuso nella torre d’avorio del proprio sapere, e carica il cittadino di una responsabilità che nessun’altro (siano anche le istituzioni) può e deve assumersi al suo posto.
Il concetto di paesaggio etico che Settis propone segna, a mio avviso, una cesura importante nella storia della tutela del patrimonio culturale: sta a noi renderla fruttuosa.
 
 
di Mario Cobuzzi

venerdì 9 dicembre 2011

"Mali Culturali" male argomentati



Domenica 4 Dicembre 2011 Milena Gabanelli ha dedicato l’inchiesta di apertura del suo programma alla situazione attuale dei beni culturali (il sito della Rai permette di vedere integralmente la puntata online).
Il panorama tracciato da Report è deprimente. Probabilmente il nostro paese un periodo altrettanto decadente, in materia di tutela del patrimonio culturale, non lo ha mai vissuto prima.
Report ha il grande merito di aver posto all'attenzione di un pubblico ampio, e troppo spesso mal informato, questa situazione degenerata che ormai da anni non stupisce più gli addetti ai lavori e quanti si preoccupano di seguire le sorti dei beni culturali e della storia dell'arte.
Eppure, premesso appunto che siamo grati a Milena Gabanelli per aver voluto toccare e approfondire questo argomento fondamentale, ci sentiamo comunque in dovere di muoverle una critica.
Report ha concentrato la sua indagine solo sugli aspetti meramente economici e turistici riguardanti il patrimonio culturale, escludendone quelli primari e fondativi: quelli squisitamente culturali (salvaguardia della cultura del passato e insieme impulso per nuove forme di cultura) e identitari, costituenti la coscienza nazionale e la memoria storica della nazione.
La tutela del patrimonio culturale non può avere fini puramente commerciali!
Tutto ciò non è minimamente preso in considerazione: gli avvertimenti illuminati di Settis e Daverio (che dopo aver citato Marinetti a sproposito dice una grande cosa) rimangono così inascoltati: l’esempio del castello francese coi pupazzi della bella addormentata (ridicolo!) e del “modello americano” ( e su quest’ultimo fatto a chi ha realizzato l’inchiesta sarebbe bastato leggere poche pagine dell’ Italia s.p.a di Settis per farsi venire qualche dubbio) sono la miglior dimostrazione che, alla fine dei conti, la materia storico artistica non è pane per i denti del programma di Rai3, nonostante la buona volontà e la certa buona fede.
Report critica il Tremonti della “con la cultura non si mangia”, ma in pratica rimane bene addentro al modello di pensiero tremontiano: solo così si spiega l’agghiacciante frase finale della conduttrice “sul cosa scegliere e cosa buttare” -sempre che quella della Gabanelli non fosse semplice ironia; e comunque, dopo l’altrettanto agghiacciante “sono troppi” di Galan, ex ministro dei beni culturali (e qui rimandiamo all'articolo dello scorso 16 Novembre), e dopo gli sfaceli mostrati, c’è ben poco da scherzare.
Insomma, quella di Report rimane una buona puntata, ma tutto sommato non mostra che la punta dell'iceberg della condizione disastrosa in cui ci ostiniamo a relegare la nostra cultura.

di Mario Cobuzzi e JaneLane

mercoledì 7 dicembre 2011

L. Venturi e l’impressionismo secondo Laura Iamurri


Vi segnalavo QUI la giornata di studi organizzata a Perugia in occasione del cinquantennale della scomparsa di Lionello Venturi.

In questo articolo vi parlerò di un’altra ottima iniziativa, datata all’ aprile di quest’anno, che permette di tener desta l’attenzione nei confronti della lezione e dell’opera del grande storico dell’arte: Lionello Venturi e la modernità dell’impressionismo è il titolo del volume scritto da Laura Iamurri e pubblicato da Quodlibet, di cui vi propongo la recensione.




Lionello Venturi
                                                                        
                                                                        

Il titolo del volume può sembrare alquanto ingannevole; nel senso che l’autrice propone un percorso che, pur avendo nel rapporto dello studioso con l’impressionismo il momento centrale, è molto più ampio, in quanto comprende una puntuale e approfondita rassegna sui fatti culturali della Parigi degli anni ’30 del novecento, quella in cui Venturi si trova ad agire dopo che il rifiuto di prestare il giuramento di fedeltà al fascismo lo costrinse all’esilio.

Così i primi due capitoli del libro sono dedicati al mondo delle riviste e del mercato, e al più generale contesto di ritorno all’ordine in cui la storia dell’arte contemporanea francese viene riletta in chiave nazionalistica e legata alla tradizione della pittura prodotta in Francia nei secoli precedenti.

L’impressionismo è, di questa situazione, la vittima designata, per la sua irriducibilità a qualsiasi lettura tradizionalista.
Questi due capitoli sono dunque necessari perché ci fanno capire il contesto in cui l’intellettuale italiano si trova ad agire, e ci rende ben coscienti dell’importanza dei suoi studi, per tanti e determinanti versi controcorrente.

Controcorrente perché, a fronte di una rivalutazione del Renoir classicista degli anni ’80, Venturi ribadisce che quella <<[…]fu una crisi, non un progresso, come alcuni critici recenti, in nome del classicismo, proclamano […] Prendendo a prestito motivi non suoi, insistendo su forme scultoree idealizzate, moltiplicando schizzi, abbozzi e disegni finiti, Renoir ha fatto con le Baigneuses del 1885 la dimostrazione della vanità dei suoi sforzi per entrare in un mondo che gli era estraneo>>. Esplicito, in questo passaggio, la polemica contro i classicismi dei ritorni all’ordine, e la conseguente rivendicazione dell’impressionismo come fatto positivo.

Stesso dicasi per la lettura venturiana dell’opera di Cézanne.

Contraddicendo risolutamente la critica di quegli anni, Venturi riallaccia i fili che collegano l’opera del Maestro di Aix a quella degli impressionisti (Pisarro in primis): <<Cézanne ricostruiva a modo suo un mondo della forma, senza nulla rinunziare delle conquiste artistiche impressionistiche>>. Il merito di Venturi, precisa Nello Ponente, è quindi quello di aver <<sottratto Cézanne alle false o devianti interpretazioni, ha smentito il Cézanne restauratore, contro l’impressionismo, di un ordone classico>> [1].


P. A. Renoir, Bagnanti, 1885 [2]


Come dicevo, il percorso tracciato dalla Iamurri riguarda il Venturi francese, e dunque l’insieme di opere che vanno dagli articoli apparsi su L’Arte nel ’32 fino allo scritto su Pisarro del’39: le stazioni fondamentali del percorso sono opere magistrali come il catalogo ragionato dell’opera di Cézanne,la Storia della critica d’arte e Les Archives de l’Impressionisme, titoli con cui lo studioso realizza il suo capolavoro metodologico, essenziale per la definizione dei compiti della disciplina storico artistica: l’arte contemporanea viene per la prima volta studiata con la serietà e la complessità che la storia dell’arte aveva concesso all’arte del passato.

Sono i metodi della connoisseurship e dell’analisi filologicamente fondata delle fonti e delle testimonianze degli e sugli artisti che Venturi mette in campo; scrive la Iamurri, che quello della connoisseurship è una consuetudine degli studi storico artistici <<che Venturi rinnova spostandola sul terreno della pittura moderna>>, <<in una prospettiva storica e metodologica di ampio respiro che non esclude, in linea di principio, la contemporaneità>>. Il catalogo dell’opera di Cézanne quindi <<appare come l’approdo esemplare dell’intenzione critica di Venturi: trattare Cézanne con gli strumenti della filologia e della connoisseurship equivaleva ad inserirlo di diritto nella “storia vera”, e ad indicare la strada per uno studio dell’arte moderna condotta “con la disciplina dello storico dell’arte”>>.

D’altronde, nella Storia della critica d’arte, autentico capolavoro venturiano, lo studioso non aveva proclamato la necessità per la disciplina di andare di pari passo con gli sviluppi artistici della propria contemporaneità? Non aveva concluso che <<la coscienza dell’arte attuale è la base di ogni storia dell’arte passata>>, rendendo così omaggio a Baudelaire e alla critica francese dell’ottocento contro il neoclassicismo tutto rivolto a un passato idealizzato di Winckelmann?

Così la Storia, per tanti versi summa del pensiero metodologico venturiano, si presenta come il sottofondo costante delle ricerche mature sull’impressionismo: non è un caso che la sua data di uscita, il 1936, coincida fatalmente con quella del catalogo cézanniano.

E così la lettura dell’impressionismo si svolge con una attenzione costante alla situazione dell’arte e del sistema dell’arte francesi degli anni ’30 (temi su cui l’autrice ritorna più volte nel corso del volume) ; curiose e numerose le idiosincrasie di Venturi: a fronte di una valutazione positiva del Picasso del periodo blu assistiamo a una svalutazione dell’esperienza cubista; e se Modigliani e Roualt (a cui lo studioso dedica un volume nel ’40) erano tenuti in gran considerazione, al contrario l’ultimo Monet rimane essenzialmente non capito dallo studioso.

E la situazione politica e sociale di un’ Europa stretta nella morsa del nazi-fascismo e a un passo dalla guerra, non poteva lasciare indifferente un intellettuale come Venturi; come è noto, la polemica contro i neoclassicismi e i ritorni all’ordine in favore dell’impressionismo nasce in lui come reazione al sistema culturale promosso dalla retorica fascista: Il gusto dei primitivi, del 1926, è testo esemplare che mostra quanto il coinvolgimento nelle questioni dell’arte contemporanea e della politica siano precedenti all’esilio francese- e qui aggiungo che, se c’è una critica che si può avanzare al lavoro della Iamussi, riguarda proprio la scarsa attenzione a quest’opera la cui importanza esce da queste pagine notevolmente sminuita (Ponente parla de Il gusto dei primitivi come di <<un libro capitale per la cultura italiana ed europea>>[3]).

Per tornare alla questione del “problema” politico, l’autrice conclude: <<la nuova sensibilità di Venturi per gli aspetti sociali della storia dell’impressionismo sia da intendere come il riflesso di un passaggio importante nell’esperienza politica dello studioso, maturato all’interno di Giustizia e Libertà, a contatto con il variegato mondo dei “fuorusciti”>> -esemplare in questo senso l’innovativa ricerca svolta sull’attività e la personalità di Durand-Ruel.

Per concludere, non mi resta che consigliare la lettura di questo volume.

Un volume chiaro nella sua complessità, ricco di informazioni sull’attività di Venturi e i rapporti con altri grandi nomi della storia della critica d’arte (il padre Adolofo, Henry Focillon, Bernard Berenson e John Rewald); stimolante sia per gli studiosi dell’arte contemporanea che per coloro interessati alla ricostruzione della storia della critica d’arte, di cui Venturi è punto imprescindibile.





                                 Laura Iamurri, Lionello Venturi e la modernità dell’impressionismo
                                 Quodilbet 2011
                                 200 pagine
                                 22 euro





[1] Cézanne e le avanguardie, a cura di Nello Ponente, Officina Edizioni 1981
[2] John Rewald, nella sua fondamentale Storia dell’impressionismo (Mondadori 1976) sposta l datazione dell’opera al 1887
[3] Cézanne e le avanguardie (vedi nota 1)


di Mario Cobuzzi

giovedì 1 dicembre 2011

ILLUMInazioni, 54° Esposizione Internazionale d'Arte - Venezia, 2011 (diario di visita)

Strettoie. Vicoli claustrofobici e campi improvvisi. Ponti, banchine e piccole barche ormeggiate. Rio, calle e sestiere: solo abbandonandosi al loro volere si troverà la direzione, il loro significato. "Perché vuoi combattere contro il labirinto? Assecondalo, per una volta. Non preoccuparti, lascia che sia la strada a decidere da sola il tuo percorso, e non il percorso a farti scegliere le strade. Impara a vagare, a vagabondare. Disorientati. Bighellona", questo invita a fare Tiziano Scarpa nella sua personale guida alla città lagunare.
E' la mia prima volta all'Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia. Un particolare fondamentale cattura subito la mia attenzione: solo una città come questa, caratterizzata da una precisa topografia, da un ordine - disordine che solo lei ha, può ospitare una Esposizione così estesa, labirintica, vorticosa.
ILLUMInazioni. E' questo il titolo scelto per l'edizione 2011. Un titolo che pone l'accento sul mondo dell'arte, comunità d'intenti e non semplice colonia di individui che agiscono soli, e sull'esperienza che ci si appresta a vivere, illuminante appunto.
I riferimenti alla poesia di Rimbaud, agli scritti di Benjamin e alla struttura in padiglioni dell'esposizione, sono evidenti, soprattutto quando, nel mezzo del Padiglione Centrale, ci si imbatte in tre opere di Jacopo Tintoretto ("L'ultima cena", "Il trafugamento del corpo di San Marco" e "La creazione degli animali"), maestro della luce. Tra le scelte più inaspettate dell'intera mostra. Come spiega Bice Curiger, curatrice di ILLUMInazioni, “nell’arte di Tintoretto la luce non è né fresca né legata in maniera armonica, bensì ‘esaltata’ e talora febbrile. La presentazione di Tintoretto alla Biennale non mira in alcun modo a postulare una ’eternità classica’. Invece di indagare sulle analogie superficialmente formali che potrebbero sussistere fra Tintoretto e l’arte contemporanea, si fa riferimento a un’energia pittorica assolutamente ‘anticlassica’. Un’energia che si nutre anche della frizione provocata dal fatto che un antico pittore ardito sia finito in un contesto attuale”.
-Nazioni- come spazi storico-temporali che si fondono, come nel caso appena descritto, ma anche come confini che rompono i confini stessi: questo, ad esempio, il compito dei cosiddetti parapadiglioni. Song Dong, Monika Sosnowska, Oscar Tuazon e Franz West sono stati invitati a dar forma ad un parapadiglione ciascuno, in modo da potere ospitare al loro interno le opere di altri artisti. In questo modo, nel percorso espositivo si incontrano condensazioni e intrecci di espressioni artistiche. A differenza della consueta “narrazione” additiva, che dispone una accanto all’altra le opere di singoli artisti nell’ambito di mostre collettive, i parapadiglioni mirano a dinamizzare la presentazione. Sono sorte così nuove forme di collaborazione tra gli artisti. Come nel caso del parapadiglione di Tuazon, che ospita al suo interno un’opera di Asier Mendizabal, mentre Ida Ekblad utilizza le pareti esterne come sfondo pittorico del suo intervento. Franz West presenta a Venezia la ricostruzione della cucina della sua casa di Vienna. Le opere dei suoi amici artisti che sono lì solitamente esposte compaiono ora sui muri esterni della struttura, mentre all’interno Dayanita Singh presenta la proiezione Dream Villa.

Song-Dong, L’intelligenza della povera gente


Dinamismo. Collettività. Relazioni temporanee e transitorie ma colme di energia.
A tutto questo si aggiunge anche il coinvolgimento attraverso una serie di domande, imperniate appunto sul significato di spazio-nazione-luce, considerando i numerosi slittamenti semantici del caso:
- la comunità artistica è una nazione?
- quante nazioni ci sono dentro di lei?
- dove si sente a casa?
- che lingua parlerà il futuro?
- se l’arte fosse uno stato, cosa direbbe la sua costituzione?
Insomma, un'arte eterodossa e sperimentale, al contempo fondata su una comunanza di intenti, che mai perde di vista il milieu culturale dal quale i singoli artisti provengono.
Eterodossi e sperimentali sono anche gli ambienti che ospitano le numerose opere: spazi dislocati sull'intero territorio lagunare, dal fulcro costituito dai Giardini e dall'Arsenale, agli antichi palazzotti e piccole gallerie.

Oblitero il mio biglietto e il viaggio può cominciare. Il tempo di perdermi un paio di volte, quanto basta per inciampare, casualmente, nella mini esposizione di un certo Frog King, il Re Rana, direttamente da Hong Kong. Uno dei numerosi eventi collaterali che colorano il perimetro dell'area principale. Un pugno nello stomaco alle 10 del mattino: il cortile di una vecchia casa con affaccio diretto sul canale è la sua corte.
Frogtopia, è la costruzione mentale in cui si trovano i valori artistici del Re, il suo modo di trascendere le convenzioni artistiche. Il pubblico è invitato a modificare il proprio aspetto: occhiali, parrucche, preziosi in plastica aiutano nella trasformazione. Il soggetto diventa per pochi secondi protagonista assoluto della propria creazione artistica.
Mi ritrovo, finalmente, all'ingresso dell'enorme e severo spazio dell'Arsenale. Il libero fluire di ambiente in ambiente, il ritornare sui propri passi, lo sbirciare, il perdere l'orientamento, la regressione infantile che mi assale di fronte a materiali modellabili, l'invito a toccare e ad impossessarsi dell'opera, le forme concave e attraversabili, la miriade di suoni che scorrono all'unisono, sono più forti di qualsiasi percorso tracciato sulle odorose mappe famelicamente ritirate all'inizio del labirinto.

"Secondo me l'anima è qualcosa che va più lenta del nostro pensiero, fluttua lentamente e il gioco della mente la rende distante dal vero".

Mi sento così varcando le soglie degli ambienti che si susseguono, senza sosta, senza preavviso. Arabia Saudita, Argentina, India, Croazia, Turchia, Emirati Arabi, Cile. Il primo segmento termina qui. Di fronte acqua ghiacciata e in lontananza il campanile di piazza San Marco.
La stessa lentezza che domina la distruzione del fuoco nell'opera di Urs Fischer, le cui statue sono sottoposte ad una costante mutazione, o quella che detta i cambiamenti di luce e suono nella Black Arch di Raja e Shadia Alem (Arabia Saudita), quella stessa lentezza stabilisce il mio ritmo: le prime 2 ore sono passate.

"Io solo ho la chiave di questa parata selvaggia". [Arthur Rimbaud, da "Illuminazioni"]

Il Padiglione Italia è, fuor di dubbio, il più chiacchierato, vessato, criticato, difeso. Citando una dichiarazione dello stesso Vittorio Sgarbi, curatore dell'Esposizione italiana: "Quest'anno il Padiglione Italia è stato criticato in modo feroce, se possibile più di ogni altra volta. Eppure la Biennale, e anche quel Padiglione, non ha mai avuto tanti visitatori. Bisogna quindi sperare di farla particolarmente brutta perché sia molto vista. Proverò a farla bella perché non ci vada nessuno".
La questione, dal mio personale punto di vista, non è solo estetica. Essa ha almeno tre ulteriori sfumature: la prima, più pratica e corporea, riguarda il rapporto che il visitatore instaura con l'esposizione delle opere, la disposizione e la presentazione, l'incontro/scontro che si è costretti a vivere non appena ci si lascia alle spalle l'insegna di benvenuto "L'arte non è cosa nostra", titolo scelto per questo enorme ammasso di creazioni, più o meno, artistiche. Strettamente correlate alla prima le altre due sfumature: da una parte l'intento del curatore di sottolineare l'autonomia dell'arte e la necessità di salvaguardarla da agenti estranei, la mafia dei critici d'arte, dei galleristi, dei collezionisti, ma anche la mafia vera, nel cui nome viene eretto un museo, per l'occasione trasferito a Venezia da Salemi, con un effetto a scatola cinese, che a tratti puzza di trovata pubblicitaria.
La terza sfumatura, istantanea dell'abisso in cui versa la situazione intellettuale, culturale e artistica contemporanea nel nostro bel paese, riguarda la cesura di qualsiasi gerarchia di valori: le opere qui esposte, private di un giudizio critico, possono, anzi, devono sottostare alla logica del deposito.
Citando un'affermazione di Ian Burn, del 1975, "Non solamente le opere d'arte finiscono per essere delle merci, ma si ha la schiacciante sensazione che esse comincino la loro vita proprio come merci", all'interno del Padiglione Italia una cosa è certa: il risultato finale di un processo, l'opera, è declassata, ridotta a cosa tra le cose. 
Il senso di confusione generale che colpisce l'intero sistema del mondo dell'arte, colpisce anche me. Disorientamento è ciò che avverto, mancanza di strumenti di comprensione adatti a districare questa massa informe.
Accantonando la logica dell'aut-aut, Sgarbi adotta quella dell'et-et, della babele linguistica, della commistione di alfabeti diversi, spesso lontani. Il caos, in una sola parola. Privo, però, di qualsiasi parvenza di forma. Nessuna esclusione, solo massiccia integrazione. Nessun punto, solo virgole. Aleggia sulle sale la volontà di sfruttare al massimo ogni minimo millimetro a disposizione. Nessuna didascalia: solo cubi, all'occorrenza sgabelli, riportano i nomi dei personaggi di cultura chiamati in causa non in quanto esperti conoscitori del linguaggio dell'arte, ma investiti di un ruolo che prevede libertà di azione, compresa quella di non dovere tenere necessariamente in considerazione vincoli e convenzioni.

Padiglione Italia


Accanto l'artista da essi pre-scelto.
Il linguaggio, di conseguenza, perde la sua specificità. Ne risente fortemente il risultato finale: l’indistinto che supera ogni convenzione, è un trabocchetto dove i primi a essere danneggiati sono gli artisti più giovani. Gli artisti noti e con un percorso solido alle spalle si salvano, gli artisti giovani e per questo poco conosciuti, rischiano di scomparire nell’indistinto prima ancora di affermarsi.
Non riesco a scorgere nessuna linea provocatoria, solo tanta retorica fine a se stessa. L'intera mostra viene sottratta alla critica, quindi alla storia. Come si può rendere giustizia ad un'opera se proprio quest'ultima viene collocata in un punto qualsiasi in completa assenza di continuità storica?
Non c'è sovvertimento, almeno ai miei occhi, ma solo riproposizione dell'esistente: è impossibile prescindere dal krinein senza correre il rischio di innescare cortocircuiti difficili da digerire.

"Il mondo dell'arte nel suo insieme, e i musei in particolare, appartengono a quello che è stato giustamente definito industria della coscienza. Io credo che l'uso del termine industria per l'intera rete delle attività di quelli che sono impegnati, stabilmente o come free lance, nel campo dell'arte, abbia un effetto salutare. In un solo colpo questo termine spazza via le nuvole romantiche che avvolgono le nozioni spesso mitiche e ingannevoli utilizzate ampiamente per quello che riguarda la produzione, distribuzione e consumo dell'arte". [Hans Haacke, 1985]

Mai affermazione fu più oracolare e il rischio di declassare l'arte a puro décor, a tappezzeria dello sguardo fugace dei turisti, a semplice location pubblicitaria, è sempre dietro l'angolo.
Se si scorre la lista degli uomini e delle donne di cultura invitati da Vittorio Sgarbi a indicare un artista da esporre al Padiglione Italia, si posso fare incontri interessanti e, al contempo, sorprendenti. A tratti incomprensibili.
Ad esempio, ci si può chiedere il perché della presenza in lista di Walter Siti, Bernardo Bertolucci, Ferzan Ozpetek, Mimmo Calopresti, Furio Colombo, Toni Servillo, Dario Fo, Tiziano Scarpa… tutti scrittori, attori, registi e critici d'arte (ma non erano stati banditi dallo stesso curatore?).
Del tutto naturale, secondo la prospettiva inclusiva del curatore, la presenza in lista di personaggi come Vladimir Luxuria, Marina Ripa di Meana, Morgan, Luciana Littizzetto, Gene Gnocchi e Fabio Fazio.
Bastano pochi istanti e la mia attenzione è colpita dalla presenza di note stridenti, senza alcun collegamento non tanto con l'intera esposizione, quanto con il presente, il contemporaneo che avanza. Baudelaire li avrebbe definiti "copisti del dizionario".
Tre nomi su tutti: Monica Ferrando, autrice di un pastello che si lascia alle spalle decenni di sperimentazione sui materiali più disparati; Silvio Lacasella, paesaggista spaesato; Paolo Giorgi, autore di un interno con ragazza distesa malinconica sul sofà. Il non riuscire a scorgere una minima tangenza tra queste tre opere, prese ad esempio, il lavoro di Pablo Echaurren, il quale precisa "Presa visione dell’allestimento del Padiglione Italia, ritengo che i criteri adottati nel presentare al pubblico i lavori siano lesivi e offensivi della dignità degli artisti. Mi riferisco in particolare alle opere affastellate su vari livelli in altezza, secondo modalità che ne rendono impossibile la lettura. Per questo motivo ho deciso di ritirare la mia opera. Laddove questa operazione non fosse immediatamente realizzabile per questioni tecniche, chiedo che il mio quadro venga coperto con un telo affinché risulti del tutto invisibile", o quello di Jannis Kounellis, e l'intero contesto, avvalora la tesi iniziale: quella del Padiglione Italia è una realtà autoreferenziale e refrattaria al dialogo con tutto ciò che la circonda.

Sono alla fine del Padiglione. Decido di tornare indietro e ripercorrere irrazionalmente l'intero spazio, senza ricercare collegamenti concettuali né plausibili spiegazioni all'operato del curatore e degli artisti, almeno alcuni di loro.
Mi vengono in mente Gilles Deleuze e Felix Guattari e il loro pensiero rizomatico in cui la radice principale si distrugge verso la sua estremità e s’innesta su di essa una molteplicità immediata e comune di radici secondarie che assumono un grande sviluppo. Così mi appare per un istante l'esposizione italiana. Opposizione al dualismo e alla dialettica. I punti di contatto risiedono nel molteplice e nella non sequenzialità.
Penso all'ordine molecolare alla base dei flussi, a loro volta caratterizzati dal divenire: spazio tensivo fra due termini, «tra» non «da-a». Quello che avviene nella distribuzione delle opere: non punti fissi, ma linee; nessuno schema, ma rottura dei confini.

“Il rizoma connette un punto qualunque con un altro punto qualunque ed ognuno dei suoi tratti non rinvia necessariamente a tratti della stessa natura; mette in gioco regimi di segni molto differenti ed anche stati di non-segni. Il rizoma non si lascia riportare né all’uno né al molteplice. Non è fatto di unità ma di dimensioni o piuttosto di direzioni in movimento, non ha inizio né fine ma sempre un mezzo, per cui cresce e straripa".

Non c'è unità nel rizoma come nel Padiglione Italia edizione 2011. In qualsiasi punto il rizoma venga interrotto o spezzato, esso riprende seguendo questa o quella linea. E' quello che accade all'interno di questo labirinto.
Ultima immagine: un piccolo televisore mi regala un Vittorio Sgarbi paonazzo che urla senza sosta "Capra!".

"È stato una volta che lessi una favoletta dal titolo "I tre prìncipi di Serendippo". Quando le loro altezze viaggiavano, continuavano a fare scoperte, per accidente e per sagacia, di cose di cui non erano in cerca: per esempio, uno di loro scoprì che un cammello cieco dall'occhio destro era passato da poco per la stessa strada, dato che l'erba era stata mangiata solo sul lato sinistro, dove appariva ridotta peggio che sul destro - ora capisce la serendipità? Uno dei più ragguardevoli esempi di questa casuale sagacia (lei deve infatti notare che nessuna scoperta di cosa che si stia cercando può ricadere sotto tale descrizione) è stato quello del mio Lord Shaftesbury, il quale, capitato a pranzo dal Lord Chancellor Clarendon, si accorse del matrimonio del duca di York e di Mrs. Hyde, dal rispetto con cui la madre di quest'ultima trattava la figlia a tavola." [W. S. Lewis]


Da questo punto in poi mi abbandono alla più completa serendipità. Raggiungo il Padiglione Centrale dopo aver attraversato il bosco di pennoni senza bandiere dell'artista marocchina Latifah Echakhch, riprendo un pò di fiato di fronte alle tre citate opere di Tintoretto, e poi un susseguirsi di incontri, come detto, inaspettati: Philippe Parreno e i suoi bulbi luminosi, Cindy Sherman e le sue gigantografie, Pipilotti Rist, Sigmar Polke, Monica Sosnowska e il suo parapadiglione, Norma Jean e la sua sala giochi… il tutto con una presenza costante: i piccioni imbalsamati di Maurizio Cattelan, il quale ci tiene a precisare che questi animali saranno la sua ultima opera, prima di ritirarsi definitivamente.
Ultima tappa: la selva degli altri Padiglioni nazionali, sparsi sull'area dei Giardini. Decido di non seguire il regolare tracciato: mi lascio sorprendere. Quel che avviene, ad esempio, di fronte, o meglio, all'interno dell'imponente macchina progettata da Christian Boltanski, "Chance". Un altro labirinto da attraversare, fatto di tubi e immagini di neonati, metafora del caso che domina la vita e la morte, rappresentate a loro volta da due grandi calcolatori che, freddamente, registrano nascite e perdite.
E poi il Padiglione Germania, insignito del Leone d'Oro. Christoph Schlingensief, morto nel dicembre del 2010, ci parla della sua vita, della sua malattia, della passione cinematografica, dell'influenza esercitata da Joseph Beuys e Fluxus sulla sua arte, condensando il tutto nella ricostruzione, a tratti commovente, della chiesetta di Oberhausen, dove l'artista serviva messa da ragazzino. Vengo letteralmente ipnotizzata: proiezioni di film, suoni, luci, mi accompagnano all'uscita quasi stordita.

Christoph Schlingensief, Church of fear


Non molto lontano il Padiglione Britannico con la colossale opera di Mike Nelson, "Impostor", ricostruzione minuziosa di un caravanserraglio: è incredibile la precisione dedicata ad ogni minimo dettaglio. Muffe, coperte impolverate, spazi angusti, centinaia di foto che pendono dal soffitto di una camera oscura. Questa esposizione è capace di togliere il respiro.
E ancora, il minimale Padiglione Svezia di Fia Bakstrom e Andreas Eriksson, con tronchi di quercia che attraversano il soffitto, e il coloratissimo Padiglione Venezuela, con il "Gran Interior" di Francisco Bassim che raccoglie simboli e personaggi della cultura moderna, caricaturizzati.
Il mio viaggio termina con il Padiglione Spagna, quello che più mi lascia pensare. Fa da contraltare a quello Italiano, sin dal titolo, emblematico: "L'Inadeguato. Lo Inadecuado. The Inadeguate". Dora Garcia offre ospitalità provvisoria al Museo dell’arte contemporanea italiana in esilio, esperienza itinerante nata da un progetto di Cesare Pietroiusti, esteso poi ad artisti esuli intercettati, con lo scopo, secondo le parole dello stesso ideatore, di "individuare personalità singole o collettive che svolgono attività creative sorprendenti, eterodosse, fuori dai circuiti della comunicazione mediatica". Il pubblico viene coinvolto in dibattiti incentrati su due concetti chiave, l'esilio e le forme di marginalità nelle produzioni artistiche. I campi di indagine sono aree di disagio sociale, in istituzioni psichiatriche, penitenziarie e riabilitative in genere, senza tralasciare personaggi isolati, eccentrici, border-line, che si dedicano ad attività bizzarre, indefinite, e che magari sono noti soltanto a piccole comunità. Il pensiero va subito all'Art Brut di Jean Dubuffet. Tutto quello che nel Padiglione italiano istituzionale è totalmente assente: al contrario di Pietroiusti, Sgarbi ha preferito costruire il deposito accademico del presente assoluto, nonostante le sue tanto decantate velleità rivoluzionarie.


Sono fuori. Un campanile mi avverte che sono le 18. Gente a frotte si riversa all'esterno. Cerco di rubare qualche riflessione, le critiche, gli apprezzamenti. Ho la testa che mi gira, piena com'è di immagini di ogni tipo. Incapace di appigliarmi a qualcosa, ho preso appunti, rubato istanti. E' come se di tutto quello che ho visto non avessi capito nulla.  Non riesco a formulare subito un giudizio preciso ma mi ritorna in mente l'opera di Giulio Paolini, di dechirichiana memoria. Un bigliettino ingiallito, protetto da una teca in plexiglas. Recita: "Et quid amabo nisi quod aenigma est?".


di Alessandra Addante

martedì 29 novembre 2011

Martedì in Arte

Oggi, 29 Novembre, e il 27 Dicembre sono le ultime due date per il 2011 dell'iniziativa ministeriale "Martedì in Arte".
Dalle 19.00 alle 23.00 saranno aperte le porte dei maggiori musei statali della penisola alcuni dei quali accoglieranno iniziative culturali e musicali, per impiegare profiquamente queste gelide sarate infrasettimanali.
Ingresso gratuito.
Beh, che dire: approfittatene!

Programma


JaneLane

Giornata di studi su Lionello Venturi - Perugia, 1 Dicembre 2011

Cinquant’anni fa veniva a mancare uno dei Maestri della storia della critica d’arte novecentesca, il
grande Lionello Venturi. Un intellettuale che ha spaziato nei periodi storico artistici più svariati; che
ha insegnato l’importanza di affrontare l’arte contemporanea con la stessa serietà con cui si affronta
quella antica; che ha mostrato quanto lo storico dell’arte non può rimaner fuori dal proprio tempo e
dai conflitti politici e sociali che lo agitano.
Questo e tanto altro ancora, ha insegnato Venturi.
L’Università per Stranieri di Perugia ha organizzato in suo onore una giornata di studi giovedì 1
dicembre 2011, dalle 9 e mezza: un’ occasione ottima per riscoprire Venturi, insieme a nomi illustri
come quelli di Maurizio Calvesi e Gianni Carlo Sciolla.

Programma

Link al sito di riferimento



di Mario Cobuzzi

lunedì 28 novembre 2011

L’immagine insepolta - Warburg secondo Didi-Huberman

Scrivere una recensione di questo libro di Georges Didi-Huberman è per me davvero difficile; forse perché, quando ci rendiamo conto che una determinata cosa ha per noi un’ importanza più o meno grande, viene naturale una sorta di timore reverenziale ad affrontarla criticamente: la possibilità di non averla capita a fondo, di fraintenderla, di tradirla, può diventare ipotesi inibitrice.
Se poi “l’oggetto d’amore” è un qualcosa di complesso, difficile, straordinariamente ricco e articolato (il volume in questione è tutte queste cose più molto altro) ecco che l’impresa di un’ analisi critica che possa dirsi “completa” sembra impossibile: d’altronde, uno degli insegnamenti più importanti di Aby Warburg tramandatoci da Didi- Huberman, ci dice che l’idea di poter affrontare l’oggetto in tutte le sue componenti, in tutti i suoi possibili livelli di significazione, sbrigliandone ogni groviglio, risolvendo definitivamente ogni rebus di cui è portatore, è impresa impossibile da attuarsi praticamente e progetto metodologico sbagliato.
Per cui questo articolo, più che una recensione, vuole essere un semplice “consiglio di lettura”.

Aby Warburg


Didi- Huberman rompe e crea legami.
Rompe in maniera risoluta quei legami che la storia tradizionale dell’Iconologia aveva instauratocon Erwin Panofsky e la sua eredità; al contrario, proprio il successo del metodo iconologicocanonico formulato da quest’ultimo risulta essere l’artefice massimo della condanna all’oblio deiconcetti fondamentali di Warburg e della normalizzazione rassicurante della sua opera.
Stesso dicasi per il neo- kantiano Ernst Cassirer, uomo d’ordine e della ragione, lontanissimo dall’Uomo del Chiaroscuro Warburg che credeva nella resistenza dei demoni e del sintomo psischico in quanto elementi costitutivi della cultura occidentale.
I nuovi legami. Sigmund Freud e la psicoanalisi, innanzitutto.
Andando in direzione opposta rispetto a quanto sostenuto da Ernst Gombrich ( l’altro grande bersaglio di queste pagine) Didi- Huberman arriva addirittura a spiegare Warburg attraverso Freud, a trovare nelle teorie del viennese un chiarimento multidisciplanare dei punti più oscuri e sottovalutati della speculazione warburghiana: lo studioso amburghese, d’altronde, non si autodefiniva “psicostorico”? Non parlava della cultura occidentale come di un organismo essenzialmente schizofrenico? E le opere di entrambi non trattano del rimosso e del suo inarrestabile tornare alla luce come sintomo rivelatore?
Così, attraverso la psicoanalisi, al fondamentale concetto di Nachleben (Sopravvivenza) viene restituita tutta la sua forza: la forza di una nozione estrema che fa venir meno tutte le certezze delle storie positiviste e idealiste, e che mette in fuori gioco qualsiasi certezza cronologica.
E se Gombrich, nella sua biografia intellettuale[1], aveva deciso di stendere un velo sull’esperienza di Warburg internato in manicomio alle prese con la follia, Didi- Huberman quel velo lo toglie risolutamente, entrando deciso nella clinica di Kreuzlingen.
E lo fa per due motivi. Il primo: c’è un altro filo da collegare, quello che unisce lo studioso folle alle teorie di Ludwig Binswanger, di cui era paziente. Il secondo, basilare: l’esperienza tragica della follia è esperienza fondativa: è nella contorsione che Warburg costruisce il suo sapere, <<risalendo il percorso dalla prova all’esperienza, e da quest’ultima alla conoscenza>>.
La lezione che se ne ricava è fondamentale quanto tragica, addirittura pericolosa: non ha validità una storia dell’arte che non tenga conto dei sintomi, delle polarità e degli intrichi inestricabili, della carica psicologica e patologica di cui le immagini sono la più potente cassa di risonanza. Quella di una “storia dell’arte come disciplina umanistica” di panofskyana memoria è insomma solo una rassicurante illusione; lo storico dell’arte deve essere pronto a fare i conti coi pericoli insiti nei sui oggetti di studio: non tener conto di essi e della loro importanza, accantonarli per mettersi al sicuro, equivale a un tradimento e a una incomprensione.
E’ il ruolo di sismografo che Warburg assume: un sismosgrafo sensibile ai ritorni inaspettati e perturbanti che si presentano come sintomi capaci di far precipitare il tempo storico cronologico nel tempo psichico delle ritornanze; un sismografo sensibile che nel ricevere e trasmettere, non può non subire gli effetti di quanto ricevuto. E’ un sapere, quello di Warburg, costruito per incorporazione.
Scrive Didi- Huberman, in un altro splendido libro che riprende alcuni temi portanti dell’esperienza warburghiana[2]: <<Non si produce un sapere sulle immagini senza manipolarle. Non si manipolano le immagini senza essere esposti- nel bene e nel male- a subire e a trasmettere il loro potere epidemico>>.

Insomma, quello di Didi- Huberman è un discorso che riguarda direttamente il compito della disciplina storia dell’arte e lo statuto dei suoi oggetti di studio, le immagini- il tutto detto attraverso il riferimento alla lezione (chiarita e per molti versi reinterpretata) di Warburg.

Per concludere ritorno a quanto detto all’inizio. E cioè che questo libro è molto più ricco e
complesso di quanto si possa desumere dalla lettura di questo articolo- basti pensare ai legami instaurati dall’autore che qui ho omesso, alcuni più scontati (Nietzche, Darwin, i Vischer e le teorie dell’Einfulung- molti dei quali rivisitati e riconsiderati) altri più innovativi (Baudelaire e Benjamin).
Così ricco e complesso, questo volume, da non potersi leggere, a mio avviso, senza avere una buona conoscenza della bibliografia su Aby Warburg accumulatasi nel corso degli ultimi decenni dopo l’iniziale silenzio sulla sua figura e sulla sua opera.
Tuttavia farei un torto a Didi-Huberman se, oltre alla difficoltà e all’impegno che la lettura richiede, non sottolineassi un fatto altrettanto sicuro: e cioè che questo è anche un libro dalla scrittura affascinante, ammaliante, in alcuni tratti quasi poetica. Basterà, per essere d’accordo con me, leggere i capitoli dedicati alla Ninfa come Leitfossil, o quello (lunghissimo e decisivo) dedicato all’atlante Mnemosyne in quanto montaggio, o ancora l’Epilogo del cercatore di perle.



G.Didi- Huberman, L’immagine insepolta-Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia
dell’arte,
Bollati Boringhieri 2006,
551 pagine,
48 euro
.
 

[1] E.H. Gombrich, Aby Warburg - una biografia intellettuale, Feltrinelli 1983 (attualmente fuori catalogo)
[2] G. Didi-Huberman, Ninfa moderna, il Saggiatore 2004




 
di Mario Cobuzzi

domenica 20 novembre 2011

Fiedler verso de Kooning ( e altro ancora).

Konrad Fiedler visto da A.von Hildebrand

Il fatto che le teorie della pura visibilità hanno avuto un ruolo determinante nella cultura artistica
primo novecentesca non lo scopriamo certo oggi. <<Non ho alcun dubbio che, per i due decenni
decisivi prima della prima guerra mondiale, fosse il libro d’arte più letto e influente>>, scrive
Wittkower[1] riferendosi a Il problema della forma nell’arte figurativa, di Adolf von Hildebrandt,
datato 1893.
Questo discordo vale, ovviamente, anche per Konrad Fiedler, l’esponente di spicco della pura
visibilità
, i cui testi hanno influenzato, oltre alla critica d’arte formalista dei decenni successivi
alcuni tra gli artisti più importanti delle avanguardie storiche.
Filiberto Menna, in un suo bellissimo libro -da qualche anno tristemente “fuori catalogo”- dedicato
a Mondrian[2], mette bene in chiaro l’importanza dello studioso tedesco per l’artista olandese pioniere
dell’ Astrattismo.
Andrea Pinotti e Fabrizio Scrivano, dal canto loro, nell’introduzione ai saggi fiedleriani raccolti
sotto il titolo Scritti sull’arte figurativa[3], rilevano come <<la provocatorietà stessa della posizione
di Fiedler richiama un’idea dell’arte che percorrerà con numerose varianti e sempre in profondità
le pratiche artistiche contemporanee, praticamente fino alle più recenti e non ancora cessate
correnti>>: è alla performance che i due studiosi pensano. E aggiungono: <<L’oggetto del giudizio
[in Fiedler] non è il prodotto ma il processo di produzione, non l’opera ma l’azione>>.
Dopo queste parole mi sembra inutile aggiungere che per ogni studioso d’arte contemporanea la
lettura di Fiedler risulta indispensabile.
Le avanguardie storiche e Mondrian, la pratica della performance: “l’altro ancora…” del titolo di
questo scritto, ormai da tempo ben riconosciuto e analizzato dalla critica.
Come avrete capito da quel “verso de Kooning”, è all’artista olandese di nascita e americano
d’adozione che voglio arrivare, uno dei massimi protagonisti- lo scrivo anche se è inutile scriverlo-
dell’ Espressionismo Astratto e dell’arte del secondo novecento.

Come i tre studiosi sopra citati, anch’io farò riferimento al testo d’esordio di Fiedler, il bellissimo
Sulla valutazione delle opere d’arte figurativa del 1876- la cui importanza va oltre l’argomento qui
trattato.
A lui la parola (i corsivi sono miei).
“L’attività spirituale artistica non mira ad alcun risultato, ma è essa stessa un risultato. Si esaurisce in ogni singolo istante, per ricominciare di nuovo nell’istante successivo. […] La chiarezza della
coscienza cui il singolo si innalza, non gli assicura mai un possesso duraturo, di cui egli possa
godere in pace […]”.
Abbiamo qui due conclusioni essenziali:
1- è il processo creativo che conta, l’attività dell’artista la cosa davvero importante. L’opera finita    sarà un momento ulteriore e tuttavia non indispensabile: il fine dell’agire artistico è
l’agire artistico in quanto tale (come già rilevato da Pinotti e Scrivano).
2- Lo stato di grazia dell’artista è il momento in cui agisce artisticamente; ma è un momento
transeunte, non infinito, da riconquistare di volta in volta “nell’attimo successivo”. Una
coscienza della fuggevolezza dell’agire autenticamente artistico che, come vedremo, de
Kooning vivrà in maniera tragica.

E ancora: “L’opera d’arte non è la somma dell’attività artistica dell’individuo, ma un’espressione
frammentaria di qualcosa che non può essere espresso in tutta la sua complessità
”, periodo a mio
avviso stupendo, che trasuda amore e rispetto per la complessità dell’Arte (un qualcosa che rimane
indefinibile e inafferrabile da qualsivoglia analisi), e che nello stesso tempo porta un altro colpo a
favore della causa della svalutazione dell’oggetto “opera d’arte”.
E in ultimo: “L’attività interiore che l’artista sviluppa spinto dalla sua natura si manifesta soltanto
sporadicamente
nell’atto artistico esterno, che non rappresenta il lavoro artistico in tutto il suo
svolgimento
, ma soltanto uno stadio intermedio”. L’atto artistico propriamente detto è quindi
sporadico, e soprattutto, non costituisce il fatto artistico puro, completo, dispiegato in tutte le
sue diramazioni e possibilità: il gesto è solo un’espressione frammentaria di un qualcosa di
essenzialmente inattuabile e quindi irraggiungibile.

W. de Kooning, Woman I, 1950-52


In de Kooning ritroviamo tutti questi motivi, rivissuti, come dicevo, in una maniera più intensa e
drammatica- e non potrebbe essere altrimenti, se pensiamo alla sua opera e alla sua biografia.

E mi permetto, a questo punto, di far entrare in scena un altro grande, Harold Rosenberg, critico
a lui molto vicino, che scrive in “de Kooning- La pittura è un modo di vivere”[4], del ‘63: <<E’
ormai raro trovare artisti che operano fidandosi completamente delle intuizioni scaturite durante
il processo creativo. Tra questi avventurieri del caos spicca Willem de Kooning>>. Il processo
creativo, tanto caro a Fiedler, è evidentemente centrale nell’artista americano; un processo che nelle
sue opere si arricchisce di una dimensione ulteriore, quella del caos, in cui l’artista si trova ad agire.
Continua Rosenberg: <<Per un attimo, il pittore e la pittura sono una cosa sola in azione sulla tela.
Ma solo per un attimo. Poi, nell’inevitabile dispersione, l’arte e l’artista non sono più niente. E
nessuno sforzo sarà in grado di ricreare l’unione. Per anni de Kooning ha parlato dell’artista come di
un disperato.>>
Ecco il punto, allora: il processo creativo (quello che nel lessico rosenberghiano diventa azione) è
un qualcosa di transeunte, di sporadico, di non infinito; qualcosa che, come sostenne Fiedler quasi
un secolo prima, non assicura all’artista un possesso duraturo.
Tutto ciò si carica di phatos e dramma, nelle mani di de Kooning: l’artista è un disperato la
cui disperazione non deriva dal problema della conclusione dell’opera, quanto dal fatto che
quell’unione “metafisica” con l’Arte è destinato alla fatale, irrimediabile rottura.
Rosenberg è molto chiaro: <<Ed ovviamente egli non cerca di completare l’opera per vederla
finita, ma si ferma alla frustrante ricerca che ha avviato>>. Appunto: è il processo creativo,
l’azione, a costituire l’elemento determinante, non il portare a termine l’opera.
Ecco cosa dichiarava l’artista pochi anni prima, nel ’60, in un’intervista radiofonica: <<Per me
è sempre stato molto difficile decidere quando un quadro era terminato, lo riconosco. Ma ora va
meglio. Smetto di lavorarci, semplicemente>>.[5]

Cosa si può concludere da tutto questo discorso?
Innanzitutto una cosa che reputo scontata: e cioè che, al di là del fatto che de Kooning possa aver
letto o meno qualcosa di Fiedler, la sua poetica e il suo agire gli appartengono interamente: troppo
drammaticamente soggettiva mi sembra la sua esperienza per farla dipendere da teorie critiche e
speculazioni estetiche.
Senza contare le differenze tra i due uomini protagonisti di questo scritto: se per Fiedler “l’atto
artistico esterno” rimane un fenomeno intermedio tra l’artista e l’Arte, in de Kooning diventa
fenomeno totale che permette l’osmosi completa con essa, osmosi la cui essenza transeunte è causa
della beatitudine e della dannazione a cui il disperato è condannato.
Se ci mettiamo però nell’ottica di una valutazione dell’opera del pensatore della pura visibilità ecco
che quanto detto fin’ora appare più significativo, perché rende più viva la percezione della forza
innovativa del suo pensiero nel suo estendersi irrimediabile (in un modo forse nemmeno voluto e
previsto) su alcuni dei fatti più significativi dell’arte contemporanea.
Così, nello scrivere queste righe, ripensando a uno dei cardini del pensiero di Fiedler- l’esclusione
dell’estetica dalla sfera dell’Arte- mi ritorna in mente il noto, folgorante motto di Barnett Newman:
“L’estetica è per l’arte ciò che l’ornitologia è per gli uccelli”. Chissà che non ci sia dell’ “altro
ancora” da portare alla luce.


[1] La scultura raccontata da Rudolf Wittkower, Einaudi 1985
[2] Filiberto Menna, Mondrian, Editori Riuniti 1999
[3] Konrad Fiedler, Scritti sull'arte figurativa, Aesthetica Edizioni 2006 (edizione a cui farò riderimento)
[4] in Harold Rosenberg, Action Painting - scritti sulla pittura d'azione, Maschietto Editore 2006
[5]
Willem de Kooning, Appunti sull'arte, Abscondida 2003


di Mario Cobuzzi