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Konrad Fiedler visto da A.von Hildebrand |
Il fatto che le teorie della pura visibilità hanno avuto un ruolo determinante nella cultura artistica
primo novecentesca non lo scopriamo certo oggi. <<Non ho alcun dubbio che, per i due decenni
decisivi prima della prima guerra mondiale, fosse il libro d’arte più letto e influente>>, scrive
Wittkower[1] riferendosi a Il problema della forma nell’arte figurativa, di Adolf von Hildebrandt,
datato 1893.
Questo discordo vale, ovviamente, anche per Konrad Fiedler, l’esponente di spicco della pura
visibilità, i cui testi hanno influenzato, oltre alla critica d’arte formalista dei decenni successivi
alcuni tra gli artisti più importanti delle avanguardie storiche.
Filiberto Menna, in un suo bellissimo libro -da qualche anno tristemente “fuori catalogo”- dedicato
a Mondrian[2], mette bene in chiaro l’importanza dello studioso tedesco per l’artista olandese pioniere
dell’ Astrattismo.
Andrea Pinotti e Fabrizio Scrivano, dal canto loro, nell’introduzione ai saggi fiedleriani raccolti
sotto il titolo Scritti sull’arte figurativa[3], rilevano come <<la provocatorietà stessa della posizione
di Fiedler richiama un’idea dell’arte che percorrerà con numerose varianti e sempre in profondità
le pratiche artistiche contemporanee, praticamente fino alle più recenti e non ancora cessate
correnti>>: è alla performance che i due studiosi pensano. E aggiungono: <<L’oggetto del giudizio
[in Fiedler] non è il prodotto ma il processo di produzione, non l’opera ma l’azione>>.
Dopo queste parole mi sembra inutile aggiungere che per ogni studioso d’arte contemporanea la
lettura di Fiedler risulta indispensabile.
Le avanguardie storiche e Mondrian, la pratica della performance: “l’altro ancora…” del titolo di
questo scritto, ormai da tempo ben riconosciuto e analizzato dalla critica.
Come avrete capito da quel “verso de Kooning”, è all’artista olandese di nascita e americano
d’adozione che voglio arrivare, uno dei massimi protagonisti- lo scrivo anche se è inutile scriverlo-
dell’ Espressionismo Astratto e dell’arte del secondo novecento.
Come i tre studiosi sopra citati, anch’io farò riferimento al testo d’esordio di Fiedler, il bellissimo
Sulla valutazione delle opere d’arte figurativa del 1876- la cui importanza va oltre l’argomento qui
trattato.
A lui la parola (i corsivi sono miei).
“L’attività spirituale artistica non mira ad alcun risultato, ma è essa stessa un risultato. Si esaurisce in ogni singolo istante, per ricominciare di nuovo nell’istante successivo. […] La chiarezza della
coscienza cui il singolo si innalza, non gli assicura mai un possesso duraturo, di cui egli possa
godere in pace […]”.
Abbiamo qui due conclusioni essenziali:
primo novecentesca non lo scopriamo certo oggi. <<Non ho alcun dubbio che, per i due decenni
decisivi prima della prima guerra mondiale, fosse il libro d’arte più letto e influente>>, scrive
Wittkower[1] riferendosi a Il problema della forma nell’arte figurativa, di Adolf von Hildebrandt,
datato 1893.
Questo discordo vale, ovviamente, anche per Konrad Fiedler, l’esponente di spicco della pura
visibilità, i cui testi hanno influenzato, oltre alla critica d’arte formalista dei decenni successivi
alcuni tra gli artisti più importanti delle avanguardie storiche.
Filiberto Menna, in un suo bellissimo libro -da qualche anno tristemente “fuori catalogo”- dedicato
a Mondrian[2], mette bene in chiaro l’importanza dello studioso tedesco per l’artista olandese pioniere
dell’ Astrattismo.
Andrea Pinotti e Fabrizio Scrivano, dal canto loro, nell’introduzione ai saggi fiedleriani raccolti
sotto il titolo Scritti sull’arte figurativa[3], rilevano come <<la provocatorietà stessa della posizione
di Fiedler richiama un’idea dell’arte che percorrerà con numerose varianti e sempre in profondità
le pratiche artistiche contemporanee, praticamente fino alle più recenti e non ancora cessate
correnti>>: è alla performance che i due studiosi pensano. E aggiungono: <<L’oggetto del giudizio
[in Fiedler] non è il prodotto ma il processo di produzione, non l’opera ma l’azione>>.
Dopo queste parole mi sembra inutile aggiungere che per ogni studioso d’arte contemporanea la
lettura di Fiedler risulta indispensabile.
Le avanguardie storiche e Mondrian, la pratica della performance: “l’altro ancora…” del titolo di
questo scritto, ormai da tempo ben riconosciuto e analizzato dalla critica.
Come avrete capito da quel “verso de Kooning”, è all’artista olandese di nascita e americano
d’adozione che voglio arrivare, uno dei massimi protagonisti- lo scrivo anche se è inutile scriverlo-
dell’ Espressionismo Astratto e dell’arte del secondo novecento.
Come i tre studiosi sopra citati, anch’io farò riferimento al testo d’esordio di Fiedler, il bellissimo
Sulla valutazione delle opere d’arte figurativa del 1876- la cui importanza va oltre l’argomento qui
trattato.
A lui la parola (i corsivi sono miei).
“L’attività spirituale artistica non mira ad alcun risultato, ma è essa stessa un risultato. Si esaurisce in ogni singolo istante, per ricominciare di nuovo nell’istante successivo. […] La chiarezza della
coscienza cui il singolo si innalza, non gli assicura mai un possesso duraturo, di cui egli possa
godere in pace […]”.
Abbiamo qui due conclusioni essenziali:
1- è il processo creativo che conta, l’attività dell’artista la cosa davvero importante. L’opera finita sarà un momento ulteriore e tuttavia non indispensabile: il fine dell’agire artistico è
l’agire artistico in quanto tale (come già rilevato da Pinotti e Scrivano).
2- Lo stato di grazia dell’artista è il momento in cui agisce artisticamente; ma è un momento
transeunte, non infinito, da riconquistare di volta in volta “nell’attimo successivo”. Una
coscienza della fuggevolezza dell’agire autenticamente artistico che, come vedremo, de
Kooning vivrà in maniera tragica.
l’agire artistico in quanto tale (come già rilevato da Pinotti e Scrivano).
2- Lo stato di grazia dell’artista è il momento in cui agisce artisticamente; ma è un momento
transeunte, non infinito, da riconquistare di volta in volta “nell’attimo successivo”. Una
coscienza della fuggevolezza dell’agire autenticamente artistico che, come vedremo, de
Kooning vivrà in maniera tragica.
E ancora: “L’opera d’arte non è la somma dell’attività artistica dell’individuo, ma un’espressione
frammentaria di qualcosa che non può essere espresso in tutta la sua complessità”, periodo a mio
avviso stupendo, che trasuda amore e rispetto per la complessità dell’Arte (un qualcosa che rimane
indefinibile e inafferrabile da qualsivoglia analisi), e che nello stesso tempo porta un altro colpo a
favore della causa della svalutazione dell’oggetto “opera d’arte”.
E in ultimo: “L’attività interiore che l’artista sviluppa spinto dalla sua natura si manifesta soltanto
sporadicamente nell’atto artistico esterno, che non rappresenta il lavoro artistico in tutto il suo
svolgimento, ma soltanto uno stadio intermedio”. L’atto artistico propriamente detto è quindi
sporadico, e soprattutto, non costituisce il fatto artistico puro, completo, dispiegato in tutte le
sue diramazioni e possibilità: il gesto è solo un’espressione frammentaria di un qualcosa di
essenzialmente inattuabile e quindi irraggiungibile.
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W. de Kooning, Woman I, 1950-52 |
In de Kooning ritroviamo tutti questi motivi, rivissuti, come dicevo, in una maniera più intensa e
drammatica- e non potrebbe essere altrimenti, se pensiamo alla sua opera e alla sua biografia.
E mi permetto, a questo punto, di far entrare in scena un altro grande, Harold Rosenberg, critico
a lui molto vicino, che scrive in “de Kooning- La pittura è un modo di vivere”[4], del ‘63: <<E’
ormai raro trovare artisti che operano fidandosi completamente delle intuizioni scaturite durante
il processo creativo. Tra questi avventurieri del caos spicca Willem de Kooning>>. Il processo
creativo, tanto caro a Fiedler, è evidentemente centrale nell’artista americano; un processo che nelle
sue opere si arricchisce di una dimensione ulteriore, quella del caos, in cui l’artista si trova ad agire.
Continua Rosenberg: <<Per un attimo, il pittore e la pittura sono una cosa sola in azione sulla tela.
Ma solo per un attimo. Poi, nell’inevitabile dispersione, l’arte e l’artista non sono più niente. E
nessuno sforzo sarà in grado di ricreare l’unione. Per anni de Kooning ha parlato dell’artista come di
un disperato.>>
Ecco il punto, allora: il processo creativo (quello che nel lessico rosenberghiano diventa azione) è
un qualcosa di transeunte, di sporadico, di non infinito; qualcosa che, come sostenne Fiedler quasi
un secolo prima, non assicura all’artista un possesso duraturo.
Tutto ciò si carica di phatos e dramma, nelle mani di de Kooning: l’artista è un disperato la
cui disperazione non deriva dal problema della conclusione dell’opera, quanto dal fatto che
quell’unione “metafisica” con l’Arte è destinato alla fatale, irrimediabile rottura.
Rosenberg è molto chiaro: <<Ed ovviamente egli non cerca di completare l’opera per vederla
finita, ma si ferma alla frustrante ricerca che ha avviato>>. Appunto: è il processo creativo,
l’azione, a costituire l’elemento determinante, non il portare a termine l’opera.
Ecco cosa dichiarava l’artista pochi anni prima, nel ’60, in un’intervista radiofonica: <<Per me
è sempre stato molto difficile decidere quando un quadro era terminato, lo riconosco. Ma ora va
meglio. Smetto di lavorarci, semplicemente>>.[5]
Cosa si può concludere da tutto questo discorso?
Innanzitutto una cosa che reputo scontata: e cioè che, al di là del fatto che de Kooning possa aver
letto o meno qualcosa di Fiedler, la sua poetica e il suo agire gli appartengono interamente: troppo
drammaticamente soggettiva mi sembra la sua esperienza per farla dipendere da teorie critiche e
speculazioni estetiche.
Senza contare le differenze tra i due uomini protagonisti di questo scritto: se per Fiedler “l’atto
artistico esterno” rimane un fenomeno intermedio tra l’artista e l’Arte, in de Kooning diventa
fenomeno totale che permette l’osmosi completa con essa, osmosi la cui essenza transeunte è causa
della beatitudine e della dannazione a cui il disperato è condannato.
Se ci mettiamo però nell’ottica di una valutazione dell’opera del pensatore della pura visibilità ecco
che quanto detto fin’ora appare più significativo, perché rende più viva la percezione della forza
innovativa del suo pensiero nel suo estendersi irrimediabile (in un modo forse nemmeno voluto e
previsto) su alcuni dei fatti più significativi dell’arte contemporanea.
Così, nello scrivere queste righe, ripensando a uno dei cardini del pensiero di Fiedler- l’esclusione
dell’estetica dalla sfera dell’Arte- mi ritorna in mente il noto, folgorante motto di Barnett Newman:
“L’estetica è per l’arte ciò che l’ornitologia è per gli uccelli”. Chissà che non ci sia dell’ “altro
ancora” da portare alla luce.
drammatica- e non potrebbe essere altrimenti, se pensiamo alla sua opera e alla sua biografia.
E mi permetto, a questo punto, di far entrare in scena un altro grande, Harold Rosenberg, critico
a lui molto vicino, che scrive in “de Kooning- La pittura è un modo di vivere”[4], del ‘63: <<E’
ormai raro trovare artisti che operano fidandosi completamente delle intuizioni scaturite durante
il processo creativo. Tra questi avventurieri del caos spicca Willem de Kooning>>. Il processo
creativo, tanto caro a Fiedler, è evidentemente centrale nell’artista americano; un processo che nelle
sue opere si arricchisce di una dimensione ulteriore, quella del caos, in cui l’artista si trova ad agire.
Continua Rosenberg: <<Per un attimo, il pittore e la pittura sono una cosa sola in azione sulla tela.
Ma solo per un attimo. Poi, nell’inevitabile dispersione, l’arte e l’artista non sono più niente. E
nessuno sforzo sarà in grado di ricreare l’unione. Per anni de Kooning ha parlato dell’artista come di
un disperato.>>
Ecco il punto, allora: il processo creativo (quello che nel lessico rosenberghiano diventa azione) è
un qualcosa di transeunte, di sporadico, di non infinito; qualcosa che, come sostenne Fiedler quasi
un secolo prima, non assicura all’artista un possesso duraturo.
Tutto ciò si carica di phatos e dramma, nelle mani di de Kooning: l’artista è un disperato la
cui disperazione non deriva dal problema della conclusione dell’opera, quanto dal fatto che
quell’unione “metafisica” con l’Arte è destinato alla fatale, irrimediabile rottura.
Rosenberg è molto chiaro: <<Ed ovviamente egli non cerca di completare l’opera per vederla
finita, ma si ferma alla frustrante ricerca che ha avviato>>. Appunto: è il processo creativo,
l’azione, a costituire l’elemento determinante, non il portare a termine l’opera.
Ecco cosa dichiarava l’artista pochi anni prima, nel ’60, in un’intervista radiofonica: <<Per me
è sempre stato molto difficile decidere quando un quadro era terminato, lo riconosco. Ma ora va
meglio. Smetto di lavorarci, semplicemente>>.[5]
Cosa si può concludere da tutto questo discorso?
Innanzitutto una cosa che reputo scontata: e cioè che, al di là del fatto che de Kooning possa aver
letto o meno qualcosa di Fiedler, la sua poetica e il suo agire gli appartengono interamente: troppo
drammaticamente soggettiva mi sembra la sua esperienza per farla dipendere da teorie critiche e
speculazioni estetiche.
Senza contare le differenze tra i due uomini protagonisti di questo scritto: se per Fiedler “l’atto
artistico esterno” rimane un fenomeno intermedio tra l’artista e l’Arte, in de Kooning diventa
fenomeno totale che permette l’osmosi completa con essa, osmosi la cui essenza transeunte è causa
della beatitudine e della dannazione a cui il disperato è condannato.
Se ci mettiamo però nell’ottica di una valutazione dell’opera del pensatore della pura visibilità ecco
che quanto detto fin’ora appare più significativo, perché rende più viva la percezione della forza
innovativa del suo pensiero nel suo estendersi irrimediabile (in un modo forse nemmeno voluto e
previsto) su alcuni dei fatti più significativi dell’arte contemporanea.
Così, nello scrivere queste righe, ripensando a uno dei cardini del pensiero di Fiedler- l’esclusione
dell’estetica dalla sfera dell’Arte- mi ritorna in mente il noto, folgorante motto di Barnett Newman:
“L’estetica è per l’arte ciò che l’ornitologia è per gli uccelli”. Chissà che non ci sia dell’ “altro
ancora” da portare alla luce.
[1] La scultura raccontata da Rudolf Wittkower, Einaudi 1985
[2] Filiberto Menna, Mondrian, Editori Riuniti 1999
[3] Konrad Fiedler, Scritti sull'arte figurativa, Aesthetica Edizioni 2006 (edizione a cui farò riderimento)
[4] in Harold Rosenberg, Action Painting - scritti sulla pittura d'azione, Maschietto Editore 2006
[5] Willem de Kooning, Appunti sull'arte, Abscondida 2003
[5] Willem de Kooning, Appunti sull'arte, Abscondida 2003
di Mario Cobuzzi
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