Scrivere una recensione di questo libro di Georges Didi-Huberman è per me davvero difficile; forse perché, quando ci rendiamo conto che una determinata cosa ha per noi un’ importanza più o meno grande, viene naturale una sorta di timore reverenziale ad affrontarla criticamente: la possibilità di non averla capita a fondo, di fraintenderla, di tradirla, può diventare ipotesi inibitrice.
Se poi “l’oggetto d’amore” è un qualcosa di complesso, difficile, straordinariamente ricco e articolato (il volume in questione è tutte queste cose più molto altro) ecco che l’impresa di un’ analisi critica che possa dirsi “completa” sembra impossibile: d’altronde, uno degli insegnamenti più importanti di Aby Warburg tramandatoci da Didi- Huberman, ci dice che l’idea di poter affrontare l’oggetto in tutte le sue componenti, in tutti i suoi possibili livelli di significazione, sbrigliandone ogni groviglio, risolvendo definitivamente ogni rebus di cui è portatore, è impresa impossibile da attuarsi praticamente e progetto metodologico sbagliato.
Per cui questo articolo, più che una recensione, vuole essere un semplice “consiglio di lettura”.
Se poi “l’oggetto d’amore” è un qualcosa di complesso, difficile, straordinariamente ricco e articolato (il volume in questione è tutte queste cose più molto altro) ecco che l’impresa di un’ analisi critica che possa dirsi “completa” sembra impossibile: d’altronde, uno degli insegnamenti più importanti di Aby Warburg tramandatoci da Didi- Huberman, ci dice che l’idea di poter affrontare l’oggetto in tutte le sue componenti, in tutti i suoi possibili livelli di significazione, sbrigliandone ogni groviglio, risolvendo definitivamente ogni rebus di cui è portatore, è impresa impossibile da attuarsi praticamente e progetto metodologico sbagliato.
Per cui questo articolo, più che una recensione, vuole essere un semplice “consiglio di lettura”.
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Aby Warburg |
Didi- Huberman rompe e crea legami.
Rompe in maniera risoluta quei legami che la storia tradizionale dell’Iconologia aveva instauratocon Erwin Panofsky e la sua eredità; al contrario, proprio il successo del metodo iconologicocanonico formulato da quest’ultimo risulta essere l’artefice massimo della condanna all’oblio deiconcetti fondamentali di Warburg e della normalizzazione rassicurante della sua opera.
Stesso dicasi per il neo- kantiano Ernst Cassirer, uomo d’ordine e della ragione, lontanissimo dall’Uomo del Chiaroscuro Warburg che credeva nella resistenza dei demoni e del sintomo psischico in quanto elementi costitutivi della cultura occidentale.
I nuovi legami. Sigmund Freud e la psicoanalisi, innanzitutto.
Andando in direzione opposta rispetto a quanto sostenuto da Ernst Gombrich ( l’altro grande bersaglio di queste pagine) Didi- Huberman arriva addirittura a spiegare Warburg attraverso Freud, a trovare nelle teorie del viennese un chiarimento multidisciplanare dei punti più oscuri e sottovalutati della speculazione warburghiana: lo studioso amburghese, d’altronde, non si autodefiniva “psicostorico”? Non parlava della cultura occidentale come di un organismo essenzialmente schizofrenico? E le opere di entrambi non trattano del rimosso e del suo inarrestabile tornare alla luce come sintomo rivelatore?
Così, attraverso la psicoanalisi, al fondamentale concetto di Nachleben (Sopravvivenza) viene restituita tutta la sua forza: la forza di una nozione estrema che fa venir meno tutte le certezze delle storie positiviste e idealiste, e che mette in fuori gioco qualsiasi certezza cronologica.
E se Gombrich, nella sua biografia intellettuale[1], aveva deciso di stendere un velo sull’esperienza di Warburg internato in manicomio alle prese con la follia, Didi- Huberman quel velo lo toglie risolutamente, entrando deciso nella clinica di Kreuzlingen.
E lo fa per due motivi. Il primo: c’è un altro filo da collegare, quello che unisce lo studioso folle alle teorie di Ludwig Binswanger, di cui era paziente. Il secondo, basilare: l’esperienza tragica della follia è esperienza fondativa: è nella contorsione che Warburg costruisce il suo sapere, <<risalendo il percorso dalla prova all’esperienza, e da quest’ultima alla conoscenza>>.
La lezione che se ne ricava è fondamentale quanto tragica, addirittura pericolosa: non ha validità una storia dell’arte che non tenga conto dei sintomi, delle polarità e degli intrichi inestricabili, della carica psicologica e patologica di cui le immagini sono la più potente cassa di risonanza. Quella di una “storia dell’arte come disciplina umanistica” di panofskyana memoria è insomma solo una rassicurante illusione; lo storico dell’arte deve essere pronto a fare i conti coi pericoli insiti nei sui oggetti di studio: non tener conto di essi e della loro importanza, accantonarli per mettersi al sicuro, equivale a un tradimento e a una incomprensione.
E’ il ruolo di sismografo che Warburg assume: un sismosgrafo sensibile ai ritorni inaspettati e perturbanti che si presentano come sintomi capaci di far precipitare il tempo storico cronologico nel tempo psichico delle ritornanze; un sismografo sensibile che nel ricevere e trasmettere, non può non subire gli effetti di quanto ricevuto. E’ un sapere, quello di Warburg, costruito per incorporazione.
Scrive Didi- Huberman, in un altro splendido libro che riprende alcuni temi portanti dell’esperienza warburghiana[2]: <<Non si produce un sapere sulle immagini senza manipolarle. Non si manipolano le immagini senza essere esposti- nel bene e nel male- a subire e a trasmettere il loro potere epidemico>>.
Insomma, quello di Didi- Huberman è un discorso che riguarda direttamente il compito della disciplina storia dell’arte e lo statuto dei suoi oggetti di studio, le immagini- il tutto detto attraverso il riferimento alla lezione (chiarita e per molti versi reinterpretata) di Warburg.
Per concludere ritorno a quanto detto all’inizio. E cioè che questo libro è molto più ricco e
complesso di quanto si possa desumere dalla lettura di questo articolo- basti pensare ai legami instaurati dall’autore che qui ho omesso, alcuni più scontati (Nietzche, Darwin, i Vischer e le teorie dell’Einfulung- molti dei quali rivisitati e riconsiderati) altri più innovativi (Baudelaire e Benjamin).
Così ricco e complesso, questo volume, da non potersi leggere, a mio avviso, senza avere una buona conoscenza della bibliografia su Aby Warburg accumulatasi nel corso degli ultimi decenni dopo l’iniziale silenzio sulla sua figura e sulla sua opera.
Tuttavia farei un torto a Didi-Huberman se, oltre alla difficoltà e all’impegno che la lettura richiede, non sottolineassi un fatto altrettanto sicuro: e cioè che questo è anche un libro dalla scrittura affascinante, ammaliante, in alcuni tratti quasi poetica. Basterà, per essere d’accordo con me, leggere i capitoli dedicati alla Ninfa come Leitfossil, o quello (lunghissimo e decisivo) dedicato all’atlante Mnemosyne in quanto montaggio, o ancora l’Epilogo del cercatore di perle.
Rompe in maniera risoluta quei legami che la storia tradizionale dell’Iconologia aveva instauratocon Erwin Panofsky e la sua eredità; al contrario, proprio il successo del metodo iconologicocanonico formulato da quest’ultimo risulta essere l’artefice massimo della condanna all’oblio deiconcetti fondamentali di Warburg e della normalizzazione rassicurante della sua opera.
Stesso dicasi per il neo- kantiano Ernst Cassirer, uomo d’ordine e della ragione, lontanissimo dall’Uomo del Chiaroscuro Warburg che credeva nella resistenza dei demoni e del sintomo psischico in quanto elementi costitutivi della cultura occidentale.
I nuovi legami. Sigmund Freud e la psicoanalisi, innanzitutto.
Andando in direzione opposta rispetto a quanto sostenuto da Ernst Gombrich ( l’altro grande bersaglio di queste pagine) Didi- Huberman arriva addirittura a spiegare Warburg attraverso Freud, a trovare nelle teorie del viennese un chiarimento multidisciplanare dei punti più oscuri e sottovalutati della speculazione warburghiana: lo studioso amburghese, d’altronde, non si autodefiniva “psicostorico”? Non parlava della cultura occidentale come di un organismo essenzialmente schizofrenico? E le opere di entrambi non trattano del rimosso e del suo inarrestabile tornare alla luce come sintomo rivelatore?
Così, attraverso la psicoanalisi, al fondamentale concetto di Nachleben (Sopravvivenza) viene restituita tutta la sua forza: la forza di una nozione estrema che fa venir meno tutte le certezze delle storie positiviste e idealiste, e che mette in fuori gioco qualsiasi certezza cronologica.
E se Gombrich, nella sua biografia intellettuale[1], aveva deciso di stendere un velo sull’esperienza di Warburg internato in manicomio alle prese con la follia, Didi- Huberman quel velo lo toglie risolutamente, entrando deciso nella clinica di Kreuzlingen.
E lo fa per due motivi. Il primo: c’è un altro filo da collegare, quello che unisce lo studioso folle alle teorie di Ludwig Binswanger, di cui era paziente. Il secondo, basilare: l’esperienza tragica della follia è esperienza fondativa: è nella contorsione che Warburg costruisce il suo sapere, <<risalendo il percorso dalla prova all’esperienza, e da quest’ultima alla conoscenza>>.
La lezione che se ne ricava è fondamentale quanto tragica, addirittura pericolosa: non ha validità una storia dell’arte che non tenga conto dei sintomi, delle polarità e degli intrichi inestricabili, della carica psicologica e patologica di cui le immagini sono la più potente cassa di risonanza. Quella di una “storia dell’arte come disciplina umanistica” di panofskyana memoria è insomma solo una rassicurante illusione; lo storico dell’arte deve essere pronto a fare i conti coi pericoli insiti nei sui oggetti di studio: non tener conto di essi e della loro importanza, accantonarli per mettersi al sicuro, equivale a un tradimento e a una incomprensione.
E’ il ruolo di sismografo che Warburg assume: un sismosgrafo sensibile ai ritorni inaspettati e perturbanti che si presentano come sintomi capaci di far precipitare il tempo storico cronologico nel tempo psichico delle ritornanze; un sismografo sensibile che nel ricevere e trasmettere, non può non subire gli effetti di quanto ricevuto. E’ un sapere, quello di Warburg, costruito per incorporazione.
Scrive Didi- Huberman, in un altro splendido libro che riprende alcuni temi portanti dell’esperienza warburghiana[2]: <<Non si produce un sapere sulle immagini senza manipolarle. Non si manipolano le immagini senza essere esposti- nel bene e nel male- a subire e a trasmettere il loro potere epidemico>>.
Insomma, quello di Didi- Huberman è un discorso che riguarda direttamente il compito della disciplina storia dell’arte e lo statuto dei suoi oggetti di studio, le immagini- il tutto detto attraverso il riferimento alla lezione (chiarita e per molti versi reinterpretata) di Warburg.
Per concludere ritorno a quanto detto all’inizio. E cioè che questo libro è molto più ricco e
complesso di quanto si possa desumere dalla lettura di questo articolo- basti pensare ai legami instaurati dall’autore che qui ho omesso, alcuni più scontati (Nietzche, Darwin, i Vischer e le teorie dell’Einfulung- molti dei quali rivisitati e riconsiderati) altri più innovativi (Baudelaire e Benjamin).
Così ricco e complesso, questo volume, da non potersi leggere, a mio avviso, senza avere una buona conoscenza della bibliografia su Aby Warburg accumulatasi nel corso degli ultimi decenni dopo l’iniziale silenzio sulla sua figura e sulla sua opera.
Tuttavia farei un torto a Didi-Huberman se, oltre alla difficoltà e all’impegno che la lettura richiede, non sottolineassi un fatto altrettanto sicuro: e cioè che questo è anche un libro dalla scrittura affascinante, ammaliante, in alcuni tratti quasi poetica. Basterà, per essere d’accordo con me, leggere i capitoli dedicati alla Ninfa come Leitfossil, o quello (lunghissimo e decisivo) dedicato all’atlante Mnemosyne in quanto montaggio, o ancora l’Epilogo del cercatore di perle.
G.Didi- Huberman, L’immagine insepolta-Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia
dell’arte,
Bollati Boringhieri 2006,
551 pagine,
48 euro.
dell’arte,
Bollati Boringhieri 2006,
551 pagine,
48 euro.
[1] E.H. Gombrich, Aby Warburg - una biografia intellettuale, Feltrinelli 1983 (attualmente fuori catalogo)
[2] G. Didi-Huberman, Ninfa moderna, il Saggiatore 2004
di Mario Cobuzzi
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